I Granduchi di Toscana amavano il patibolo molto più del Papa-re

Gent.mo dott. , nella sua risposta al sig. Mignozzetti, lei sostiene che nello Stato pontificio vi furono meno forche che nel Granducato dei Lorena. Sono un Suo convinto estimatore, specie per quanto riguarda le vicende del Risorgimento, ma ho l’impressione che questa volta lei abbia parlato a vanvera. Niente di male, «quandoque dormitat bonus Homerus». Per dimostrarmi il contrario, dovrebbe dirmi quante furono in quel periodo le esecuzioni capitali in Toscana e quante nella Roma papalina.
Siena

Cifre non ne ho, caro Pallini, e credo che di certe non le abbia nessuno. Si sa che negli anni risorgimentali le esecuzioni in tutta la penisola furono all’incirca cinquecento, anche se è un dato da prendere con le molle perché nessuno ebbe cura di tenerne il conto esatto. Ovviamente forca e ghigliottina - un assai apprezzato lascito dell’occupazione napoleonica - lavorarono anche nello Stato pontificio dove vigeva, come ovunque, la pena di morte. Temperata però dal ricorso al perdono, più frequente in un ordinamento paternalista di ispirazione cristiana che non in regimi laicamente assertori del «dura lex sed lex». Naturalmente la vulgata risorgimentale è portata a sorvolare sulle condanne a morte in Piemonte (il Codice Sardo era assai severo: «I progressi della morte sono immensi», lamentava Angelo Brofferio riferendosi alle esecuzioni nel torinese Rondò della Forca), calcando invece l’indignata mano su quelle eseguite nel Regno delle Due Sicilie o a Roma. Di Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, gli ultimi a finire ghigliottinati in piazza del Popolo, se ne è fatto addirittura dei martiri, luminose figure dell’epopea unitaria, dei rivoluzionari, dei patrioti insorti per liberare Roma. Erano invece due poveretti che per un pugno di baiocchi si incaricarono, per conto dei piemontesi (e degli inglesi) di compiere un attentato che avrebbe dovuto far da miccia alla tanto invocata e mai - mai - avvenuta sollevazione dei romani contro il Papa. La bomba alla caserma Serristori che causò 23 morti e decine di feriti sollevò sì Roma, ma contro di loro, contro gli attentatori. A tal punto che Pio IX, che li voleva condannare alla pena perpetua, non poté impedire che finissero nelle mani di Mastro Titta.
Parliamoci chiaro, caro Pallini: in Toscana e non parliamo del Piemonte, si saliva alla forca per molto meno (quando non si preferivano le vie spicce: nel luglio del ’61 un giornale torinese riportava questa notiziola: «A Baranello, nella provincia di Campobasso, tale Francesco Pantano, capitolato di Gaeta, per sottrarsi al servizio militare, cui era richiamato, riparò in un suo podere ed ivi sorpreso mentre dormiva invece di essere arrestato fu ucciso a colpi di baionette»). Capisco, però, il suo risentimento: da buon toscano lei rivendica al Granducato un primato del quale andate ancora giustamente orgogliosi (mi pare che ne abbiate fatto anche una festa regionale). Parlo ovviamente dell’abolizione della pena di morte - la prima al mondo - voluta da Pietro Leopoldo Asburgo Lorena nel 1786. Va però aggiunto che l’abolizione durò appena quattro anni. Il figlio di Piero Leopoldo, Ferdinando III, reintrodusse infatti la pena capitale per i «ribelli», i «sollevatori» e in seguito per i responsabili di altri reati.

Non parliamo poi delle ghigliottine al lavoro durante l’occupazione napoleonica al termine della quale fu sì reintrodotto il codice leopoldino, ma gravato da un editto che per certi delitti ripristinava la forca. Le condanne a morte seguitarono anche dopo l’annessione al Regno d’Italia, cessando solo nel 1889, con l’entrata in vigore del Codice Zanardelli.

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