I magistrati beffati dal boss sempre eccitato

Francesco Castriotta, uno dei ras della cocaina a Milano, è evaso dagli arresti domiciliari prima della condanna definitiva I magistrati gli avevano risparmiato il carcere perché soffriva di "priapismo"

I magistrati beffati dal boss sempre eccitato

Milano - «A che serve consumarsi in una cella?». Già: a cosa serve? Così il boss che ce l’aveva sempre duro è svanito nel nulla. Lo avevano scarcerato per un motivo insolito, «priapismo», ovvero la dolorosa e imbarazzante disfunzione di chi si ritrova con il membro in stato di erezione permanente. Colpa, avevano ipotizzato i medici, di qualche sniffata di troppo. Qualunque ne fosse la causa, i giudici avevano ritenuto che un simile disturbo fosse incompatibile con il regime carcerario, anche perché fonte di perenne imbarazzo nei rapporti con i compagni di cella.

E Francesco Castriotta, gangster rampante della Milano nera, se n’era potuto tornare a casa, agli arresti domiciliari. Lo avevano riarrestato per un’altra storia, poi era riuscito per un cavillo a farsi annullare anche il nuovo mandato. Ed era tornato a casa nonostante le imputazioni che gravavano su di lui, quelle di essere il capo di una banda di narcos in grado di rifornire di cocaina mezza Milano.
Mentre il boss e il suo imbarazzante organo riproduttore se ne stavano tranquilli a casa, la giustizia ha fatto il suo corso. E una dopo l’altra, sono arrivate le sentenze. Prima la Cassazione che rende definitiva una condanna a undici anni di carcere. Poi il giudice preliminare Giovanna Verga, che gli infligge vent’anni per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico. Totale, anni trentuno. Nei giorni scorsi, quando i carabinieri sono andati per riportarlo in carcere, hanno scoperto che Castriotta - e come dargli torto - aveva tagliato la corda indisturbato. Unico ricordo, una lettera d’addio alla moglie.

È una lettera che - se la si depura dalla personalità del mittente, e dal dettaglio che non risulta affatto che Castriotta sia in fin di vita - può anche risultare toccante. «So che questo mio scritto può farti tanto male - scrive Castriotta alla donna - ti informo che oggi mi hanno confermato undici anni di carcere in Cassazione, sicuramente a giorni saranno venuti a prendermi di nuovo. L’idea di ritornare dentro... Mi sale l’angoscia, preferisco farla finita ma da uomo libero. Ormai, come tu sai, la mia malattia mi terrà in vita ancora per pochi anni, e allora a che serve consumarsi in una cella, dove vedere che anche il nostro amore svanisce per questa ingiustizia indegna. Ti chiedo scusa soprattutto per tutto quello che hai passato in questi anni e chissà per quanti ancora. Ti porterò per sempre nel mio cuore».

In realtà, Castriotta sapeva bene che gli undici anni resi definitivi dalla Cassazione erano solo l’antipasto. La prima sentenza riguardava alcuni episodi di traffico di droga realizzati in combutta con Domenico Brescia, il sarto milanese divenuto famoso per i suoi rapporti e le sue intercettazioni con i calciatori e i tecnici dell’Inter. Dopo quel primo arresto, su Franco Castriotta il pubblico ministero Marcello Musso aveva continuato a scavare. Ed era arrivata l’accusa contenuta nel nuovo ordine di cattura che aveva rispedito Castriotta in cella: era lui, il giovane boss che dirigeva lo spaccio di cocaina e di hashish a Quarto Oggiaro. Ma il tribunale della Libertà aveva annullato il nuovo ordine di cattura: non perché non ci fossero le prove, ma perché si trattava di una «contestazione a catena». E il boss era tornato ai domiciliari

Ma le prove c’erano, e Castriotta era il primo a saperlo. Con calma, nella sua casa di via Sebastiano Satta, nel cuore di Quarto Oggiaro, preparava la fuga.

Venerdì scorso, arriva la sentenza: vent’anni. Ma lui è già «in bandiera», come si dice in gergo malavitoso: è già latitante. «A che serve consumarsi in una cella», soprattutto se sono stati i giudici a lasciarti uscire?

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