I maschi di Iaia Caputo sono messi molto male

Resoconto impietoso della vita di una donna, tra picchi di antinarcisismo e punte di euforia verticale, Dimmi ancora una parola di Iaia Caputo (Guanda, pagg. 179, euro 13,50) riesce a trattare, stando lontano dalle retoriche dell’autoanalisi, interminabili giochi di proiezioni, desideri irrisolti o spostati. E poi sogni, scene primarie, immagini fantasmatiche di sé scambiate per vere, momenti rimossi pronti a tornare, veti e deleghe a esprimersi.
Tutto questo, in fondo, appartiene alla vita di chiunque. E chiunque l’enfasi che mette inevitabilmente narrando le proprie, di vicende: giusta e tollerata e a volte richiesta concessione al nostro povero e omologatissimo statuto di persone umane. Che, talvolta, scrivono. E allora questo libro, raccontando una vita come altre che ambisce, esattamente come le altre, a essere l’unica, possiede una quota assai alta di credibilità. L’elemento incredibile di queste pagine è, invece, il catalogo dei maschi che la protagonista viene incontrando.
Padre, primo amante, coniuge, altri amanti. Sequela d’individui meravigliosi per la banalità. Facili da trattare perché mai complessi, mai sfaccettati. Galleria di gente che non ride. Devitalizzati, al più ansiosi. Mai autoironici.
Nessun risentimento da parte dell’autrice e nemmeno imperizie narrative, sia chiaro. Solo un evidenziare a pioggia non uomini ma unicamente maschi, oi androi da operetta ora infrigiditi, ora sensuali, ora solo-padri. Ora giovani, ora intellettuali spocchiosi. Ora metodici e asettici progettatori di sé, ora frustrati. Insomma, a fronte di un molteplice femminile instabile e in mutamento, c’è un ben più elementare e fisso maschile. Nessuna opposizione reale, o dialogo paritario, o tosto antagonismo tra i sessi. Solo confronti in cui il maschio esibisce la propria normalissima, tiepida, ottusa corrività. Ne conosci uno, li hai visti tutti.
Il quesito, sfacciatamente extratestuale, è ora il seguente: se anche a un’autrice attenta a cose e persone, osservatrice sofisticata nel coglierne i dettagli più intimi quale è la Caputo risulta questa e solo questa immagine del maschio, allora essere maschio è triste. E il lettore (quorum ego) cade nel disagio, chiede se la sua vita è davvero tanto schiacciata sulla specie o, al meglio, sui ruoli familiari e sociali. Se ha realmente riprodotto forme di arroganza sessista, di misoginia inconsapevole, di amore-terrore atavico per le donne. Soprattutto, il lettore uomo si chiede se le sue azioni sono state sempre così prevedibili, serializzabili. E se i suoi (ma sono davvero «suoi»?) gesti sono unicamente la copia di altri, similissimi gesti.
Ecco il nuovo dato inquietante: l’identificazione del lettore maschio con i protagonisti maschi sarà facile, spontanea. Dirà, quel lettore: «anch’io, anch’io sono come uno di quelli lì». E se questo è un motivo valido per leggere il libro, è anche d’altro canto una ragione di svergognato imbarazzo. Perché ci si ritrova a essere caricature delle caricature di modelli umani che, a loro volta, sono solo dei tipi, degli stampini.
Che ne è dell’unicità, dell’irripetibilità personale, delle originalità eventualmente ben coltivate, a questo punto? Nulla.

Illusioni, specchietti per allodole. Qualcuno, leggendo il libro e ritrovandosi nella parte di padre, primo amante, coniuge, eventuale nuovo amante, dovrà riconoscersi più riproducibile di quanto era abituato a considerarsi. E non potrà difendersi.

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