«I mie ricordi “fedeli” di prete-operaio»

Escono i diari che il sacerdote lombardo tenne quando nel ’68-70 lavorò in fabbrica

«Se adesso non fossi qui, questo libro non ci sarebbe stato». Siamo nel parlatoio del monastero di Viboldone, poco lontano dalla via Emilia. Milano dista dieci chilometri, ma sembra lontanissima da questa oasi di affaccendata quiete benedettina dove vive una comunità di una trentina di monache.
A parlare è don Luisito Bianchi, 81 anni, natali a Vescovato (Cremona) e cappellano del monastero: da oggi è in libreria I miei amici. Diari (1968-1970), edito da Sironi. Sono passati quasi cinque anni dalla pubblicazione de La messa dell'uomo disarmato, il suo romanzo sulla Resistenza che, a dispetto della mole, ha riscosso tali successi di critica e pubblico da trasformare don Luisito in un caso letterario.
Lui è sempre lo stesso: sorridente e pensoso. «Sono in attesa dei commenti dei lettori», spiega. Forse anche di qualche polemica, considerato che i suoi diari, non privi di pagine tormentate, sono quelli di un prete in fabbrica negli anni caldi della contestazione e di Paolo VI.
Finissimo traduttore, ma anche operaio, infermiere e per una settimana persino benzinaio. Don Luisito, perché ha scelto di lavorare?
«Diceva San Paolo: il lavoro è evangelizzante. Parlare di Dio è parlare del gratuito per eccellenza: non si possono ricevere dei soldi per questo. È un fatto di credibilità».
Lei entra in fabbrica nel gennaio del '68.
«Dopo la laurea in Scienze Politiche con Francesco Alberoni, il vescovo mi affidò un incarico importante all'Ufficio centrale assistenti delle Acli di Roma: parlavo di lavoro senza sapere che cosa fosse. Non potevo andare avanti così».
Come la accolsero gli «amici di fabbrica» della Montecatini?
«Non capivano. Più che il mio ruolo, li stupiva che un laureato facesse quella vita. “Un prete non lavora”, disse uno. “La tua Chiesa ti ride in faccia”, un altro. Negli spogliatoi - all'epoca c'erano 1.300 operai - si sussurrava che fossi in castigo per chissà quali colpe. Per loro il lavoro era una prigione».
E per lei?
«Una scelta. La fabbrica fu un privilegio».
Un privilegio lavorare di notte o con un caldo torrido che, come scrive nel libro, la soffocava?
«Nei giorni più bui quando, dopo aver curato i genitori malati e detto Messa, mi toccava il turno notturno, pensavo: “Ora vado a vivere”».
Lo rifarebbe?
«Ho fatto questa scelta per fedeltà al mondo e alla Chiesa: vivo senza rimpianti. E quando sento che in fabbrica si continua a morire, mi sembra che da allora non sia cambiato nulla».
Si considera un prete-operaio?
«Non ebbi rapporti con le associazioni di preti-operai: non ho mai pensato alla mia scelta in chiave politica. Per me è l'uomo più umile che conta, non i partiti. L'esperienza in fabbrica nasce dalla constatazione che per annunciare coerentemente l'Evangelo solo la gratuità è credibile. La Chiesa di oggi dovrebbe riscoprire questo valore».
Nel libro ci sono pagine dure contro la «Chiesa-istituzione».
«Fino all'ultimo ero incerto sulla pubblicazione. Ma nei tre mesi che qui a Viboldone impiegai a rileggere questi diari, riscoperti quasi per caso, non ho trovato una sola pagina da cui non trasudi un amore esasperato, che sa di gas e di acido, verso questa Chiesa».
Dopo la fabbrica, l'ospedale...
«Sì, ho fatto l'inserviente al Galeazzi di Milano».
L'inserviente?
«Pulivo il sedere agli ammalati: quante intense preghiere su quei corpi sofferenti.

Solo il direttore sanitario sapeva che ero prete: non sarebbe stato giusto per i pazienti, molti dei quali non mi avrebbero permesso di fare cose umili come lavarli e accudirli. Mi confidai solo con un collega: diventammo amici».

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