Dopo essere stato rovinato dal bisturi di un oculista; aver vissuto per sei anni al buio, chiuso in casa, dormendo di giorno e vegliando di notte, imbottito di morfina per cercare di lenire il dolore devastante che dagli occhi s’era propagato a tutto il corpo; aver cambiato 40 tipi di collirio e 30 paia d’occhiali; aver consultato invano un centinaio di medici; aver subìto quattro ricoveri in altrettanti ospedali ed essere finito sette volte in sala operatoria; dopo tutto questo, Marco Palmisano, manager di successo ridotto a una larva umana, decise nell’ordine tre cose.
La prima: che se la luce del sole doveva essere la sua tortura perenne, tanto valeva non vederla più, e quindi pensò di rivolgersi al ministro della Sanità dell’epoca, Girolamo Sirchia, affinché autorizzasse il primo intervento chirurgico al mondo per accecare deliberatamente un paziente mediante alcolizzazione del nervo ottico.
La seconda: che in alternativa tanto valeva farsi accigliare, cioè passare il resto dei suoi giorni con le palpebre cucite, come gli sparvieri selvatici degli antichi falconieri e come gli invidiosi nel canto XIII del Purgatorio dantesco, una blefaroplastica alla rovescia che all’ospedale San Gerardo di Monza si rifiutarono d’eseguire, «sarebbe un supplizio ancora più atroce avvertire il riflesso spontaneo e non riuscire ad aprire gli occhi», lo convinse il primario.
La terza: che se proprio nessun medico poteva o voleva aiutarlo a rendere sopportabile il suo calvario, tanto valeva uccidersi, c’era solo da individuare il metodo più sicuro per farlo, «telefonavo a medici legali e anatomopatologi, mi fingevo un giornalista del Tg5 alle prese con un’inchiesta sul suicidio; arrivai alla conclusione che ce n’erano tre, di sistemi rapidi e indolori, ma non glieli rivelerò mai, perché alla fine ho capito che morire è assai più difficile che vivere».
Oggi Marco Palmisano porta anche al chiuso lenti fotocromatiche sormontate da lenti più scure e ha le sclere degli occhi rigate da otto taglietti neri, esiti di altrettante incisioni chirurgiche. Però ci vede. Vede anche quello che gli occhi degli altri non vedono. Segni. Coincidenze. Misteri. È nato l’11 luglio 1957. L’intervento oculistico che gli ha rovinato la vita fu eseguito l’11 luglio 2001. «E oggi arriva a intervistarmi lei, che è nato l’11 luglio come me, e senza saperlo m’intervista proprio il 1° ottobre, che è la festa di Santa Teresa del Bambin Gesù, Teresa di Lisieux, la mia Teresina, colei che ha fatto il miracolo, che ha mandato un angelo a salvarmi».
Così s’intitola, Un angelo mi ha salvato, il libro pubblicato negli Oscar Mondadori, in cui Palmisano ha raccontato la sua odissea di malato cronico guarito dalla dottoressa Giovanna Bardellini, medico chirurgo, neurologa e omeopata, arrivata da Monza, ma secondo lui scesa dritta dal cielo e ora, da più di un anno, diventata la signora Palmisano, sua moglie. Racconta Fiorello nella prefazione (alla fine del libro c’è anche una lettera di Maria De Filippi) che una sera prese in mano svogliatamente lo scartafaccio mandatogli in lettura da Palmisano: un minuto dopo aveva già staccato il telefono, s’era stravaccato sul divano e lo aveva letto fino in fondo, tutto d’un fiato, come ipnotizzato, perché «Marco mi aveva condotto per mano in un cammino che, da tempo, io stesso volevo percorrere».
Fondatore e presidente del Club Santa Chiara, compagnia di comunicazione che raccoglie dirigenti, imprenditori, artisti, giornalisti e operatori provenienti da stampa, televisione, radio, Web, spettacolo e pubblicità, Palmisano conosce bene i trucchi della comunicazione. Alla fine del suo precedente libro, Vademecum, aveva fatto incollare una busta chiusa contenente «Le 10 regole d’oro»: incuriosito, tagliavi i bordi e dentro trovavi i 10 comandamenti. Bisognava pur aspettarselo da un seguace di don Luigi Giussani che prima di sposarsi aveva scelto di vivere con i Memores Domini, una comunità di laici cattolici che vivono in povertà, castità e obbedienza all’interno di Comunione e liberazione.
Palmisano nel 2001 era (lo è ancora) un apprezzato dirigente di Mediaset desideroso soltanto di vederci ancora meglio. Voleva buttare via le sue lenti da miope astigmatico: due diottrie in un occhio, 1,75 nell’altro, niente in tutto. Gli era stato promesso che col laser a eccimeri in pochi minuti ci avrebbe visto benissimo - dieci decimi - e avrebbe buttato via gli odiatissimi occhiali.
È rimasto vittima della sua vanità.
«In un certo senso sì. In Publitalia avevo scalato tutta la gerarchia interna - direttore centrale, direttore commerciale, direttore dei rapporti istituzionali - e volevo essere in piena forma per un nuovo importante incarico».
Com’è arrivato ai vertici della concessionaria di pubblicità delle reti Mediaset?
«Nell’84 ero capoufficio stampa di Roberto Formigoni, allora vicepresidente del Parlamento europeo. Incontrammo Silvio Berlusconi: “Qualcuno di voi potrebbe venire nelle mie televisioni”, ci propose. Si riferiva ai ciellini. Lo raccontai a don Giussani, che scrisse un biglietto di presentazione. Dopo 48 ore fui convocato dal Cavaliere ad Arcore. L’indomani ero da Fedele Confalonieri. “Per sei mesi stia zitto e mi segua da mattina a sera”, fu la consegna. Alla fine avevo capito tutto del gruppo. A quel punto Marcello Dell’Utri mi scelse come suo assistente personale a Publitalia, un’esperienza che vale più di due lauree e sette master».
Dopodiché decise di rovinarsi col laser.
«Un intervento di routine, tanti amici lo avevano già fatto e ne erano entusiasti: vista recuperata al 100 per cento. Ma quel giorno l’oculista scelse un’altra strada: “Dottor Palmisano, il suo difetto visivo è talmente lieve che il laser non serve”. E mi fece una cheratotomia arcuata, un tipo di operazione che persino il russo Fyodorov, pioniere della microchirurgia oftalmica, aveva abbandonato da anni. Ma io non lo sapevo».
Quando lo scoprì?
«Quando mi affondò il bisturi nella cornea dell’occhio destro. Cacciai un urlo. “Perché grida?”, si stupì il medico. Perché mi ha fatto male. “Impossibile, le ho messo l’anestetico”. Non era che un acconto dei dolori lancinanti che avrei patito nei sei anni successivi. Tornato a casa, mi sembrava che una spada m’avesse trafitto la nuca. Ero piegato in due da fitte all’addome e all’inguine. Spaventatissimo, telefonai al chirurgo, ma il suo cellulare era spento. Trascorsi la notte imbottito di analgesici. Al mattino il dolore era aumentato. Faticai ad alzarmi dal letto, avevo perso l’equilibrio. Con l’occhio operato vedevo malissimo. Quando finalmente rintracciai l’oculista al telefono, mi rispose infastidito che per togliere l’astigmatismo era stato costretto a rendermi più miope. Poteva dirmelo prima, m’arrabbiai, avrei sicuramente evitato di farmi operare».
Quale fu la diagnosi?
«Nessuna e tutte. Pellegrinai da luminari di fama mondiale, chirurghi, professori universitari, medici generici, oculisti, ortottisti, neurologi, psichiatri, osteopati, omeopati, pranoterapeuti, riflessologi, fisioterapisti, agopuntori cinesi e tibetani, maghi, e nessuno di loro riuscì a dirmi esattamente che cosa avessi. Ci sono migliaia di italiani che hanno avuto la vista rovinata da questa chirurgia e soffrono in silenzio, vengono fatti passare per pazzi, riempiti di psicofarmaci. Io sono andato avanti per sei anni a morfina e neurolettici. Ero diventato un peso anche per i Memores Domini, con i quali vivevo dall’età di 25 anni. Dovetti tornare a casa di mia mamma, ormai vicina all’ottantina, una roccia, l’unica che m’è rimasta accanto».
Smise di lavorare?
«Per forza. Però da Mediaset m’è sempre arrivato lo stipendio, e questo non lo dimenticherò mai, perché dopo sei mesi di malattia un dirigente è licenziabile. Mi coricavo al sorgere del sole e mi svegliavo alle 13. Vivevo con la mascherina dell’Alitalia sugli occhi. Tapparelle giù, televisore spento. Telefonate degli amici sempre più rare, a parte quelle di Berlusconi: “Coraggio, non mollare, torna presto. Sappi di poter contare sempre su di me”. Un prete mi consigliò di offrire ciascun dolore per una buona causa. Be’, a un certo punto non sapevo più a chi offrirlo. Era talmente tanto ’sto dolore! Allora mi suggerì: “Offrilo per la Cina”. Credo d’aver invocato la conversione di tutti i cinesi, uno a uno. E così passai alle bestemmie, certi porconi...».
Dio restava in cima ai suoi pensieri.
«Non mi sono mai rassegnato all’idea che volesse il mio male: in fin dei conti gli avevo dedicato la vita. Nel settembre del 2005 mi telefonò Formigoni: “Prepàrati. Domani ti porto a Lourdes”. Aveva noleggiato a sue spese un aereo privato. In ginocchio davanti alla grotta delle apparizioni, recitai l’invocazione imparata da ragazzo: “Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam”. E venne Giovanna, l’angelo che mi ha salvato, il mio bel medico dai riccioli biondi. Ma non subito».
Quando e come?
«Il 22 febbraio 2006 era l’anniversario della morte di don Giussani, che per me è stato un secondo padre, e io andai dai frati del Carmelo di Legnano a confessare l’ultimo peccato, quello che avevo in animo di commettere di lì a poche ore: il suicidio. Padre Atanasio e padre Tommaso, poveretti, non trovavano più argomenti per trattenermi. Mi dissero solo: “Chiedi la grazia a Teresa di Lisieux. Anche lei, ammalata di tubercolosi, aveva pregato le consorelle del monastero di portar via le medicine dalla sua cella per non cedere alla tentazione di ingoiarle tutte in un colpo per farla finita. Comincia la Novena delle Rose”. La Novena delle Rose? Che cos’è? Voi siete matti! Ciò nonostante provai, con fede. È una preghiera che si ripete 24 volte al giorno, tanti quanti furono gli anni di vita della santa, per nove giorni consecutivi. La particolarità della supplica consiste nel fatto che durante la novena può arrivarti una rosa: è il segno che Dio ti concederà la grazia per intercessione di Teresina. Dopo cinque giorni scesi in strada barcollante per il mio quart’ora d’aria quotidiano. Svoltato l’angolo, mi venne incontro un extracomunitario, un indianino: aveva finito il suo mazzo di rose e mi porgeva l’ultima che gli era rimasta. Mi parve di sognare. Credo d’avergliela pagata 50 euro. Passarono altri quattro giorni, senza che succedesse nulla. La sera del nono giorno aprii la posta elettronica: c’era un solo messaggio, molto scarno, di un medico di Monza, che aveva letto un mio disperato appello spedito parecchio tempo prima a uno dei tanti forum Internet frequentati dai malati: “Sono molto interessata al suo caso. Se vuole, si metta in contatto con me”».
Era Giovanna Bardellini.
«Sì. Ma io non potevo muovermi. Venne a visitarmi a domicilio. S’innamorò più del caso che del paziente, e io più della dottoressa che della donna. Poi sarebbe venuto anche il resto per entrambi. Mi chiese: “Ha mai fatto gli anticorpi antinervo?”. Manco sapevo che cosa fossero. Risultato: ero positivo a tre infezioni croniche che avevano innescato una gravissima neuropatia. Dalla cornea s’erano propagate all’intero sistema nervoso autonomo, cioè al simpatico e parasimpatico che governano tutte le funzioni vegetative, quelle che non possono essere controllate con la volontà. Giovanna cominciò a curarmi con l’omeopatia. Dopo due mesi passeggiavamo insieme per strada. Dopo un anno eravamo marito e moglie».
Il professor Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri, dice che l’omeopatia «è il nulla», acqua fresca.
«Ho due debiti di riconoscenza da pagare ai santi. Il primo è dimostrare che le grandi case farmaceutiche fanno di tutto per diffondere questa falsità. Il mio caso prova che un medico omeopata serio guarisce ciò che gli altri medici non sono neppure in grado di diagnosticare».
E il secondo debito?
«Spenderò il resto dei miei giorni per dare contenuti ai mezzi di comunicazione. Voglio parlare al cuore di chi opera nella televisione, nei giornali, nello spettacolo. Solo così avremo prodotti finali di qualità. In fin dei conti sono due battaglie di sanità, no? Dei corpi la prima, dello spirito la seconda. Il Club Santa Chiara sta già organizzando col Vaticano il primo corso di esercizi spirituali per chi fa questo mestiere».
La partecipazione di Antonio Ricci e della combriccola di Striscia la notizia mi pare improbabile.
«Non è detto».
È perfettamente guarito?
«Non posso guidare o stare davanti al computer per più di un quarto d’ora, i film devo vederli a rate, i libri due pagine per sera, i giornali solo i titoli. Il danno agli occhi rimane. Ma il dolore è scomparso».
Ha perdonato il chirurgo che l’ha rovinata?
(Ci pensa). «Sì. Ma ho avuto bisogno di Giovanna, un bene più grande, per riuscirci».
Che idea s’è fatto della medicina?
«È un scienza molto imperfetta».
Nel suo libro lei dedica dieci capitoli alle cose importanti della vita, ma anche a sentimenti oggidì svalutati. Vogliamo dire una parola su ciascuno di essi? Felicità.
«Ci può raggiungere».
Amicizia.
«Necessaria quanto rara».
Amore.
«La forza che tutto regge».
Famiglia.
«Il tempio che ci ripara dalla solitudine».
Lavoro.
«L’espressione più vitale della persona insieme con l’affettività».
Bellezza.
«Lo stupore di fronte a un mistero più grande di noi».
Sofferenza.
«Sarebbe meglio non provarla. Impossibile».
Comunicazione.
«Necessaria quanto l’aria».
Educazione.
«Manca, perché mancano maestri veri».
Speranza.
«La sorella minore della fede».
Parla bene lei, perché ha avuto la grazia. Ma quale consiglio darebbe ai malati che pregano senza ottenerla?
«Di insistere. Il Padreterno la grazia la concede, a chi la chiede. A me l’ha data dopo sei anni.
(425. Continua)
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