Fa spesso parlare di sé, Filippo Timi, classe 1974, per il suo talento e per la sua personalità travolgente, impossibile da contenere: «Non riesco a prescindere da quello che sono», ammette lui stesso. E sicuramente è vero, per tanti motivi sia intellettuali sia concreti, fisici. Filippo, Filo, è unico anche per la sua balbuzie, che quando sale sul palco svanisce quasi del tutto, ed è affetto dal morbo di Stargardt, che provoca una pressoché totale cecità. «Attingo da me stesso - dice-. Dal particolare arrivo all'infinito: siamo tutti uomini, tutti uguali. Io rielaboro il mio personale».
Un talento riconosciuto. Da più parti. Lultimo è il Premio Hystrio, organizzato dall'omonima rivista teatrale, che viene consegnato ogni anno alle realtà più interessanti della scena contemporanea italiana. Gli sarà attribuito, sabato prossimo, al Teatro Elfo Puccini di Milano, «per il suo brillante e multiforme percorso artistico e per la sua ultima fatica teatrale, Il popolo non ha fame? diamogli le brioche». Lo spettacolo dell'attore perugino sarà in scena a Mantova il 20 giugno al teatro Ariston (ore 20.30) in occasione del Festival «Arlecchino d'oro», che coniuga spettacoli di teatro di scena e di strada, coinvolgendo le vie, le piazze oltre ai palcoscenici della città (18-27 giugno, www.teatrofestival.org).
Quindi, Filippo, i suoi problemi sono la sua energia, e l'arte un modo per affrontarli?
«Non esattamente: non ritengo la mia arte una medicina. Anche se i miei problemi sono la mia forza, non mi interessa assuefarmi. La situazione è più complessa: faccio un lavoro che mi costringe ad affrontarmi sempre per quello che sono. Per essere un buon attore e un buon scrittore devo scontrarmi col mio personale, il che è un desiderio, ma a volte una condanna. Anche se farne a meno sarebbe impossibile».
Quindi una sfida continua, cercata e consapevole.
«E' una fame di espressione per trasmettere dei significati. Pensiamo a Il popolo non ha fame. Parlo di Amleto, e lo rappresento come se provasse a uscire dalla recita, accorgendosi che lui non è altro che un personaggio. Per questo va in crisi. Vive un sentimento di fallimento con se stesso, deve trovarsi. Mostro il suo sforzo di ricerca con momenti tragici e altri comici, per far ridere e far riflettere».
Tra teatro, cinema e narrativa, spazia tra tante diverse discipline artistiche. C'è un linguaggio che sente più suo? «No, io comunico in tanti modi per la mia voracità di espressione e perché mi concentro meglio se ho tante diverse cose su cui lavorare. Arrivo prima all'essenza di ciò che voglio dire. Il "solo quello" per me è difficile, ogni cosa a suo modo mi dà. L'importante è conoscersi bene».
Perché parla spesso di Pollyanna? Che figura è per lei?
«Pollyanna è una bambina sfortunatissima che però riesce a trovare il bello nelle cose tremende che le accadono. Io ho cercato di pensare così per un po, di essere contento delle disgrazie. Adesso sono cambiato. La merda è merda, e le difficoltà ci sono. E' inutile prendersi in giro. Non la voglio uccidere, ucciderla è impossibile. La voglio viva, ma agonizzante».
Nello spettacolo «Il popolo ha fame» bacia un'attrice. E' vero che sia in cinema che in teatro, i suoi baci sono sempre veri?
«Sono più che veri. Sono impazziti. Sono l'essenza del bacio: Di volta in volta hanno un senso diverso a seconda di ciò che devono significare: quelli di Amleto, ad esempio, sono estremizzati e risultano molto finti perché lui si sta rendendo conto che il suo è solo un ruolo. Nei film, invece, sono molto carichi di una tua verità, bisogna mettere in gioco un repertorio reale».
Programmi e notizie per il futuro?
«L'Amleto andrà anche a Roma e poi m'inseriscono nell'albo d'oro di Perugia. La mamma è già in visibilio. Oltre a ciò sto lavorando ad un nuovo romanzo».
Racconti la sua esperienza in tv su La7.
«Lavorare con Maurizio Crozza è stato bellissimo. Dovevo fare una sola puntata, invece sono rimasto per tutta la stagione. Ci sono attori fantastici, e si fa un'ironia feroce ma costruttiva».
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