da Roma
Più che un film sulla «banda dei quattro», è ormai un cortometraggio sulla «guerra tra bande». Ogni ventiquattrore una piccola, ma significativa produzione di celluloide. Dalla «messa è finita» di Lamberto Dini, siamo già al «Ccà nisciuno è fesso» di Clemente Mastella e Antonio Di Pietro. La posizione di forza assunta da Lambertow suscita calcoli antagonisti negli alleati più vicini. Se il presidente del Senato, Franco Marini, si tira subito fuori da un governo tecnico di incerta natura e durata, Mastella blocca sul nascere la possibilità di unirsi ai diniani in un unico gruppo parlamentare. «No grazie», manda a dire il leader dellUdeur. Uno che, sottolinea il suo luogotenente Mauro Fabris, «ora si scopre centrista e ci sembra esagerato che possa porsi come garante dei moderati del centrosinistra».
Mastella esclude qualsiasi possibilità di governo tecnico per far partire la «fase nuova» chiesta da Dini. Rivendica un diritto di primogenitura, il Guardasigilli, perché «il governo Marini lo avevamo proposto noi a Telese, ma Dini fu piuttosto muto. Se qualcuno spera ora di mandare Marini a fare il premier per andare lui a fare il presidente del Senato, francamente è meglio che lo dica ad alta voce». A tenere sullaltolà-chi va là Mastella è anche il lavorio sulla legge elettorale: «Se il Pd vuole massacrarci, a gennaio stacco la spina e spiego al Paese che Veltroni e i suoi amici pensavano solo ai propri interessi». Ancor meno Mastella si fida di Dini e del suo gruppo. «Non ne capiamo le finalità, mi pare strano. Bisogna distinguere tra chi ha anche unidentità territoriale e chi ce lha soltanto parlamentare».
Nessuno pensi di sfruttare a proprio uso e consumo l«utilità marginale» mastelliana, consolidata grazie a certosino radicamento di voti in Campania. Sulla stessa barricata è Antonio Di Pietro, che bolla Dini come «estorsore politico». La sua mossa, spiega Di Pietro, è il tentativo di «rilanciare se stesso», nonché voglia «spregiudicata di occupare potere». Lex Pm avverte che non si possono «subire ricatti» e «se Dini vuole ruoli diversi da quello che ha, prima deve prendere i voti. Approfittare dellunico voto di differenza per poterlo poi far pesare come fosse un partito di maggioranza è unazione che ognuno di noi potrebbe fare, ma in quel caso dovrebbe essere classificato per quello che è, un estorsore politico».
Non combacia più tanto neppure il pezzetto parlamentare che ormai pareva vicino alla fusione con i diniani. Se Willer Bordon pare intenzionato a concorrere per il Campidoglio, anche Roberto Manzione prende le distanze. E spiega che per fare un gruppo «il cammino è ancora lungo». Manzione non ha digerito il voto mancato di Dini sulla class action, «un atteggiamento pilatesco che determina qualche difficoltà nel formulare una prognosi di affidabilità e solidarietà condivisa». Il nuovo gruppo, insomma, «non può servire soltanto a qualcuno per perseguire interessi personali».
Anche se possono far gola uffici, appannaggi e visibilità parlamentare, non si fidano di Dini neppure i socialisti di Angius. Né è a buon punto il cordiale entente con Domenico Fisichella (tra lui e Dini non è mai corso buon sangue) e con litalo-argentino Luigi Pallaro. Ad approfittare delle difficoltà diniane scende così in picchiata la squadra democratico-prodiana. Prodi cerca di riconquistarlo attenuando i toni, perché «Dini non pone aut aut ma problemi politici che meritano risposta. Come in passato, con lui troverò un accordo». Appello a rientrare nei ranghi e toni melliflui anche dal Pd: dal vicesegretario Franceschini ai capigruppo Finocchiaro e Soro. In questa maionese impazzita, mastica amaro la sinistra radicale.
Titolo dei prossimi cortometraggi: «A ciascuno il suo» e «Chi la fa laspetti».
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