«Se le regole ci sono, ci devono essere per tutti». Ai leghisti e ai commercianti non va giù che il Primo maggio i negozi etnici abbiano lavorato, in barba a tutti gli altri. Incuranti di divieti e normative. Chinatown, via Padova, via Imbonati: tutte aperte le serrande degli Internet point, dei call center, dei mini market etnici, dei bar e dei ristoranti. «Le leggi - insorge Fabrizio Cecchetti, consigliere regionale del Carroccio - valgono per italiani e non. Quello che è accaduto il Primo maggio è la dimostrazione che gli stranieri se ne fregano delle nostre regole». E alla fine quelli che ci rimettono sono solo i negozianti al dettaglio milanesi che già devono fare i conti con la grande distribuzione. Se per di più i quartieri etnici della città fanno di testa loro, allora gli affari ne risentono eccome. «Non è una questione di razzismo. Ma questa - aggiunge Cecchetti - si chiama concorrenza sleale e non va affatto bene».
Oltre al danno la beffa: nessuno, tra i negozianti stranieri, è stato multato dai vigili. «Non era il caso» taglia corto il vicesindaco Riccardo De Corato, dopo il tira e molla tra Comune e commercianti sulla deroga per tenere aperto il Primo maggio. Per di più gli agenti della polizia locale erano impegnati a gestire il corteo dei sindacati e il May day dei centri sociali. «De Corato - commenta Pietro Rosa Gastaldo, presidente di Confesercenti - è stato saggio. Ma alla fine chi ci ha rimesso è stato il commercio al dettaglio milanese. Tutti noi volevamo lavorare ma nessuno ha potuto». Va bene le questioni di ordine pubblico, va bene le richieste dei sindacati perché sia rispettata la festa dei lavoratori, ma i negozianti chiedono un cambio di rotta per il futuro: «Bisogna rendersi conto che durante i giorni di festa - aggiunge Rosa Gastaldo - le famiglie hanno voglia di shopping.
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