Per i nostalgici del Pci il nuovo che avanza è l’irriducibile Diliberto (in politica da 40 anni)

Dev’essere che qui, fra i comunisti defenestrati dal Parlamento, non è che siano rimasti in tanti, e proprio giovani non sono. Oppure dev’essere che la nuova Federazione della Sinistra che ha riunito Prc e Pdci in queste ore ha ben altri problemi da affrontare che non il rinnovamento generazionale, per esempio non fare la fine del panda. Fatto sta che, per la serie «ancora tu, ma non dovevamo vederci più», in principio fu Paolo Ferrero, per il prosieguo tocca a lui, Oliviero Diliberto, fare da portavoce e traghettare i «compagni» verso il partito unico dei comunisti. Per dire il nuovo che avanza, nel 1969, pescando random: l’uomo sbarcava sulla Luna, Jan Palach «sul rogo bruciava all’orizzonte del cielo di Praga», Luigi Pintor e Rossana Rossanda fondavano il Manifesto in disaccordo col Pci di Luigi Longo, Giuseppe Pinelli finiva giù da una finestra del quarto piano della questura di Milano, un colpo di stato portava al potere il Colonnello Gheddafi. E Diliberto iniziava la sua militanza politica. «Padre funzionario della Regione, mamma insegnante al liceo. Nessuno dei due comunista. Il primo impatto con la sinistra lo ebbi in quarta ginnasio. Mi dettero un volantino e fu una folgorazione. Diventai segretario provinciale della Fgci».
Sono passati 40 anni e Diliberto ne ha fatte di cose. Battaglie del secolo scorso. Tanto per dire fu lui, da Guardasigilli del governo D’Alema, a ottenere il rimpatrio di Silvia Baraldini dalle carceri statunitensi. Correva l’anno 1999 e Diliberto era già un vecchio, della politica s’intende. Già Pci, già Prc, già direttore di Liberazione, già capogruppo alla Camera fino al fatidico 1998, quando lasciò il Prc di Bertinotti, reo di aver fatto cadere il governo Prodi, fondando il Pdci con Cossutta. Giurista e docente di diritto romano, è un comunista recidivo e lo ammette: «Il mio punto di riferimento era Giorgio Amendola. Sono rimasto lì. Tutti gli altri mi hanno scavalcato a destra». Inamovibile. Si definisce «un tipo equilibrato, quasi mai ho alzato la voce in vita mia», e infatti è sibilando che lancia bordate tipo quella sul sequestro di Francois Pinault da parte dei lavoratori licenziati: «Non è da condividere né da condannare, qui c’è da comprendere», o le tante contro il nemico numero uno: «Berlusconi è un pazzo, pericoloso per la democrazia, ci fa schifo», e, se non fosse chiaro: «Noi odiamo Berlusconi». Parole caute e moderate. Del resto fu lui a dire che «chi fa politica per tanti anni non può essere tanto buono. Un po’ di disincanto è necessario». La batosta arrivò nel 2008. Lui si era già fatto da parte, in realtà, rinunciando a ricandidarsi alla Camera per lasciare il posto a Ciro Argentino, operaio della Thyssen Krupp. Beau geste inutile, il Pdci restò fuori dall’Aula con percentuali da prefisso telefonico.


Adesso rieccolo lanciare la «grande offensiva» di portare acqua al mulino di Vendola e del Pd, ma per carità senza tornare al governo, ché tanto si sa che finirebbe in rissa. Disse una volta che «la falce e martello non indica un’ideologia astratta: sono i simboli del lavoro, scelti oltre un secolo fa». Poi concesse: «Oggi forse sarebbe scelto un computer». Si vedrà.

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