I paladini della memoria: così si salvano i luoghi storici

Associazioni, fondazioni, miliardari e gente comune: ecco chi combatte, e a volte vince, contro le ruspe che vogliono cancellare i ricordi

Il proprietario Hilly Kristal ha minacciato di trasferirsi a Las Vegas e di portarsi dietro tutto, anche il bagno, quello dove andava Joey Ramone dopo aver cantato. Per il 74enne Kristal, il suo locale, il Cbgb, è la storia del punk rock. Ed è così anche per i fan e i clienti storici, come l’ex chitarrista della E Street Band di Springsteen, Steve Van Zandt, che non si rassegnano a dire addio al club newyorchese. Al Country Blue Grass Blues, nel ’74, si esibiscono i Ramones. E poi i Blondie, i Talking Heads, Patti Smith. In pochi anni il palco di Hilly diventa una tappa obbligata per il mondo underground e, poi, una meta turistica. L’ingresso costa poco, al 315 di Bowery street, nel lower East side di Manhattan.
I prezzi, ora, sono cambiati. Non tanto per una birra, o per ascoltare musica dal vivo. Il problema è pagare l’affitto. Il Bowery Residents’ Committee ha triplicato la tariffa e ha chiesto arretrati per 90mila dollari, Kristal è riuscito a non sganciare un soldo, ma il contenzioso è finito male per lui e il suo locale. Sperava di riuscire a resistere fino ad Halloween, chiuderà alla fine di settembre. La Bowery è assediata dai miliardari, Muzzy Rosenblatt, che guida il comitato dei condomini, sostiene la causa quasi a malincuore, perché anche lui è affezionato al club e lascia, fra quelle pareti, i suoi ricordi: «Lì ho dato il primo bacio a mia moglie». Non è che abbia dimenticato, è che i progetti sono altri. Non sono servite le proteste, i concerti, la campagna «Save Cbgb» e le t-shirt dei Ramones, i fan con i capelli tinti di verde. Anche i musicisti hanno provato a dare una mano a Kristal, con Steve Van Zandt in prima fila, insieme ad altri protagonisti dei Sopranos. Neppure un tentativo di mediazione da parte del sindaco Bloomberg ha funzionato. Il contratto d’affitto non sarà rinnovato.
Per i nostalgici è un nuovo colpo da assorbire, dopo quello ricevuto cinque mesi fa, quando è stato un altro bar storico di New York, il West End, a perdere la sua battaglia. Fino alla fine degli anni ’70, il padrone era Sidney Roberts, che poteva vantarsi di aver avuto, fra i clienti, Allen Ginsberg e Jack Kerouac e, fra gli ospiti, musicisti come Duke Ellington e Art Garfunkel. Leggende che, negli anni successivi, sono servite al locale per continuare ad attrarre gli studenti della Columbia, giocando sulla passione per la generazione Beat. Poi, l’anno scorso, i poliziotti hanno scoperto che nel bar venivano serviti alcolici anche ai minori di 21 anni ed è scattato il primo ordine di chiusura provvisoria. Fra denunce e tentativi di mantenere in vita il locale, si è arrivati allo scorso aprile, quando i proprietari hanno ceduto a una catena di bistrò cubani. Fan e frequentatori abituali non sono riusciti a impedirne la chiusura come, in passato, per il Village Gate dove, nel 1962, Bob Dylan aveva composto la sua canzone A Hard Rain's A-Gonna Fall, o il Bottom Line, palco d’esordio cittadino per Bruce Springsteen. Non sono soltanto gli abitanti del quartiere o i vecchi clienti a rimpiangere una birra o un concerto dal vivo. C’è anche il pubblico dei fan, quello che considera il passaggio dei «grandi» come un evento, che ammira le fotografie appese al muro e immagina chi potesse essere seduto a quel tavolino, e non vuole che la storia si trasformi in un ricordo lontano, una targa sbiadita senza nulla alle spalle. È ciò che succederà alla casa di Marlon Brando a Los Angeles, i «Frangipani», destinata a essere demolita. Il nuovo proprietario, Jack Nicholson, l’aveva acquistata due anni fa, poco dopo la morte di Brando, per cinque milioni di euro. Voleva rispettare la memoria dell’amico e, anche, conservare l’abitazione per i figli di Brando. Questi ultimi, però, se ne sarebbero disinteressati, mentre una ex assistente ha avanzato pretese sull’eredità dell’attore e ha avviato una causa contro la proprietà per ottenere oltre 2 milioni di euro di danni. La villa dell’amico, per Nicholson, è diventata un peso e, all’inizio di agosto, l’attore ha annunciato la decisione di raderla al suolo: è ormai completamente ammuffita, e restaurarla sarebbe troppo costoso. Al 12900 di Mulholland Drive, sulle colline che guardano Los Angeles, al posto della casa sorgerà un giardino di fiori di loto. Almeno nelle intenzioni di Nicholson perché, una volta che la notizia ha fatto il giro del mondo, si sono scatenate l’indignazione e la preoccupazione dei fan di Brando. Le proprietà della star rischiano di scomparire completamente: gli oggetti conservati ai «Frangipani» sono già stati tutti venduti a un’asta da Christie’s, mentre l’atollo di Tetiaroa, nel Pacifico, sarà trasformato dal nuovo proprietario in un resort turistico di extralusso.
Preservare il nome e la memoria del vecchio inquilino può diventare anche una questione politica. Non solo a Cuba, dove la casa di Hemingway all’Havana, la Finca Vigia, attende da anni di essere restaurata. Lo scrittore fa parlare di sé anche a Key West, perché il dipartimento dell’Agricoltura americano vorrebbe che i circa sessanta gatti che popolano «The Ernest Hemingway home and museum» fossero tenuti sotto controllo e sorvegliati. La famiglia Morawski, entrata in possesso della villa negli anni ’60, però, pretende assoluta libertà per i felini che, secondo la tradizione, sono gli eredi del gatto di Hemingway. A Igalo, sul Mar Adriatico, a rischio è villa Galeb, l’abitazione che Tito aveva scelto come rifugio per le sue vacanze: già da un paio d’anni è passata nelle mani di un’agenzia di viaggi russa, che l’ha divisa in stanze e suite di lusso (come quella «del Maresciallo», con il letto francese dell’ex padre della Jugoslavia e il bagno in ceramiche blu brasiliane) da affittare ai turisti. Le autorità montenegrine, ora, vogliono privatizzare la residenza, composta anche da una zona termale e un parco di sette ettari con vista sulle Bocche di Cattaro. In prima fila, fra gli aspiranti proprietari, ci sono proprio i miliardari russi, pronti a sborsare milioni di euro, come già è successo per un’altra «seconda casa» d’eccezione, la dacia sul Mar Nero che Stalin si era fatto costruire negli anni Trenta, vicino a Gagra. L’anno scorso, Oleg Deripaska, 37enne magnate dell’alluminio, è riuscito a strapparla al governo dell’Abkhazia per dieci milioni di euro.
Gerry Harrison, consigliere laburista del quartiere londinese di Camden, si è impegnato invece in una battaglia più letteraria che politica: salvare dal degrado il palazzo al numero 8 di Royal College street dove, fra maggio e luglio del 1873, hanno abitato Arthur Rimbaud e Paul Verlaine durante il loro «esilio» nella capitale britannica. Rimbaud aveva 19 anni, Verlaine dieci di più e sua moglie aveva scoperto la loro relazione. Il loro primo rifugio è in Howland street, a Fitzrovia, poi fuggono a Bruxelles e, infine, tornano a Londra, nella palazzina di Camden. Ora la proprietà, decrepita, è in vendita: il ricordo del loro passaggio è affidato, oltre che alla campagna di Harrison, a una targa che qualche appassionato ha affisso negli anni Cinquanta. Gli inglesi, che non amano sprecare le glorie nazionali (e infatti hanno trasformato Stratford-upon-Avon nel tempio di Shakespeare), ora combattono anche per quelle dei francesi. Non dimenticano, però, i concittadini famosi, come Thomas Hardy, in nome del quale hanno cercato di salvare prima un pub di Dorchester, poi la torre Clavell e un mulino, entrambi nel Dorset e fonte di ispirazione per lo scrittore. L’ultima battaglia è quella intrapresa all’inizio di luglio dalla Victorian Society per «Undershaw», la villa del Surrey dove Arthur Conan Doyle ha scritto Il mastino dei Baskerville e che, al momento, è nelle mani di un privato che vorrebbe dividerla in 13 appartamenti. Secondo la tradizione, sarebbe stato il padre di Sherlock Holmes a disegnarla, insieme all’amico architetto Joseph Henry Hall. Un monumento nazionale, che gli appassionati non vogliono perdere. I precedenti, però, non sono a loro favore.

Cinque anni fa, i cultori di Edgar Allan Poe hanno cercato in ogni modo di salvare l’appartamento di New York dove l’autore aveva scritto Il corvo dalla demolizione. Woody Allen ha anche scritto una lettera al New York Times. Niente da fare. Le ruspe non hanno il senso dell’ironia.

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