"I poveri" di Vollmann un pugno nello stomaco

Inchiesta, autobiografia e storie da tutto il mondo in un libro feroce, che distrugge i luoghi comuni

"I poveri" di Vollmann un pugno nello stomaco

Lo scrittore William Vollmann ha già cercato di salvare il mondo alcune volte, non solo a parole, con i fatti, che includono il farsi sparare addosso in Bosnia e arruolarsi con i mujaheddin per liberare l'Afghanistan dall'Armata rossa. Ossessionato dalla violenza, Vollmann l'ha ritratta con tutti gli strumenti che aveva a disposizione, dalla narrativa (Europe Central, Mondadori) al giornalismo, fino al capolavoro Come un'onda che sale e che scende (Mondadori) che è un trattato medievale sotto mentite spoglie, un bestiario, dove non c'è soluzione di continuità tra il racconto, autobiografico o meno, e il saggio. Non c'è perché non può esserci. Vollmann riconosce i limiti connaturati alla testimonianza o alla narrativa, non importa quanto realistica. Raccontare non basta. Bisogna anche sezionare l'argomento, spiegare, interrogarsi e interrogare il lettore. Fino a costringersi e costringere a riconsiderare tutto: anche così si salva il mondo, se non altro dalla banalità.

I poveri (minimum fax, pagg. 384 più tavole fotografiche, euro 19; la prima edizione americana è del 2007) segue questa falsariga, quindi troverete, tra le sue pagine, narrativa (non fiction, però), saggistica e autobiografia. Vollmann si aggira per le periferie del mondo, partendo dalla Thailandia e arrivando al parcheggio sotto il suo ufficio, a Sacramento, negli Usa. Nel mezzo raccoglie le storie dei poveri. A Klong Toey, un distretto di Bangkok, incontra Sunee, alcolizzata, donna delle pulizie, convinta di essere condannata alla povertà dal karma: lei ha quello che ha donato nella vita precedente, cioè nulla. Il pescatore di tonni in Yemen, senza un quattrino, rifiuta l'etichetta di povero: è felice, anche se un occidentale definirebbe la sua vita come privazione. Natalia, barbona di San Pietroburgo, è convinta di essere una vittima delle circostanze, una malattia le ha tolto tutto. Si accumulano scoperte: la povertà è relativa e non assoluta; il marxismo spiega poco; il mercato è una ideologia come le altre, solo meno dannosa; il peso della religione è ancora enorme; quando si descrive la miseria, il paternalismo è sempre in agguato, anche nei volumi sinceri come Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans; la falsa coscienza non risparmia nessuno, né il borghese in cerca di emozioni nei rioni lerci di Hanoi, né chi in quei rioni ci vive. Céline tagliava corto: i poveri «si odiano gli uni gli altri, tanto basta». I poveri è quanto di più celiniano leggerete quest'anno, scritto da un autore che, intelligentemente, neppure prova a imitare Louis-Ferdinand. Vollmann è un piccolo borghese, non un semi-straccione come Céline, quindi non può chiudere la discussione in poche parole: deve prima affrontare la sua (e la nostra) falsa coscienza, deve capire e confrontare, rischiando di farsi ammazzare dai rapinatori, se necessario.

In mezzo alle storie, ci sono i documenti, le cifre e infine un album fotografico in cui l'autore ha raccolto le immagini dei poveri intervistati per il libro. Soprattutto ci sono le riflessioni di Vollmann, in un crescendo costante di domande sempre più feroci, sempre più destinate a restare senza risposte, la povertà sembrava un tema così semplice all'inizio e invece è un rompicapo, perché tutti siamo i poveri di qualcun altro, e se un povero, felice o infelice che sia, non si riconosce come tale, chi siamo noi per affermare che lo è?

Certo, esistono definizioni ufficiali della povertà, tutte quante insieme troppo precise e troppo vacue. C'è l'Indice di sviluppo umano delle Nazioni unite; c'è la soglia dei quattro dollari al giorno, sotto i quali si è poveri; ci sono i più disparati algoritmi e criteri di valutazione. Una massa di numeri, che crolla come un castello di carte davanti all'osservazione diretta. Dal contesto non si può prescindere, definiremmo povero il pescatore di tonni, felice nella sua realtà, solo perché non ha mai neppure desiderato ciò che noi abbiamo? Henry David Thoreau, che si ritirò in una capanna a Walden Pond, riderebbe di noi. Se la passava bene, secondo i suoi criteri, con 14,36 dollari al giorno, il costo di un nostro pranzo. A chi esprimeva insoddisfazione verso la propria vita, consigliava di fare come lui, vivere in riva a un lago, mangiare fagioli e rinunciare ai lussi, tipo il caffè. Non lo seguì nessuno ma aveva per questo torto?

Vollmann descrive una condizione sociale, eppure... In questo corpo a corpo con un fenomeno inafferrabile, che mette a nudo le contraddizioni di chi lo studia, e dunque dello scrittore e dei suoi lettori, Vollmann ricorre spesso a categorie che non definiscono in senso stretto la povertà ma la avvicinano alla sfera della «mancanza», materiale innanzi tutto ma anche morale o sentimentale. Le parole chiave, scelte come nomi dei capitoli, sono invisibilità, deformità, indesiderabilità, dipendenza, vulnerabilità, dolore, torpore e separazione.

Tutte comunicano un vuoto, una assenza, una perdita che spesso inducono una particolare forma di terrore, quello di perdere tutto, anche se stessi. A chi non manca qualcosa? Chi può dire di sentirsi completo? Quando queste domande diventano esplicite, è troppo tardi per mettersi al riparo. Nelle splendide foto di poveri in fondo al volume è impossibile non riconoscersi, fa niente se sono ritratte cameriere thailandesi o senzatetto di Miami o donne delle terre bruciate in Madagascar. Quelli siamo noi. Vollmann ci ha fregati: ci siamo dentro fino al collo, anche se ci crediamo tranquilli nel nostro salotto. Forse non siamo poveri ma assomigliamo loro più di quanto saremmo stati disposti ad ammettere. Per questo la povertà ha il potere di angosciarci o commuoverci o spaventarci o farci orrore. Può sembrare un approccio riduttivo o addirittura «blasfemo»: la povertà è non aver da mangiare; sentire, ogni giorno, di avere un pugnale conficcato nel cuore è una questione ulteriore, da ricchi. Davvero? Lasciamo simili problemi di coscienza ai bigotti del marxismo e ai loro figli (indegni, il marxismo è una cosa seria) del politicamente corretto: questo non si può dire, quello non si può neppure pensare, questo offende, quello indigna. Vollmann è un avventuriero, nella vita e nelle idee, non è roba per chi si accontenta delle opinioni «giuste». Non gradiamo? Amen e amici come prima. Vollmann non è qui per conquistare il mercato ed essere simpatico a tutti. William Burroughs la metteva giù così: «Io sono uno scrittore? Non sono cosa sono. Una cosa è sicura. Io non sono qui per farvi divertire». Per fortuna vale anche per Vollmann. Infatti, mille prediche in favore della povertà non vi rimescoleranno l'anima come cinque pagine di questa autentica opera d'arte.

Si entra nel libro pronti a una gita turistica nello zoo della povertà e non se ne esce più, chiusi a chiave in una gabbia, come tutti, a osservarsi allo specchio, come tutti, a sentirsi mutilati, come tutti. Così vanno le cose, così devono andare per sempre?

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