Caro Granzotto, il giorno di «Roma Capitale» e nellanno delle celebrazioni dellUnità dItalia, il Corriere della Sera - con un tempismo degno di miglior causa - dedica tre pagine alla rievocazione di un episodio cruento della guerra al brigantaggio: «Il massacro di Pontelandolfo» del 14 agosto 1861. Ho parlato di tempismo degno di miglior causa perché mi rifiuto di credere che, in Francia, il giorno della celebrazione di un centenario della presa della Bastiglia, Le Figaro e Le Monde possano dedicare tre pagine alla rievocazione dei crimini commessi in Vandea dalle truppe del generale Louis Maria Turreau, il creatore delle «Colonne infami». È appena il caso di ricordare al riguardo che la repressione attuata dai soldati mandati in Vandea dalla Convenzione Nazionale di Parigi fu così feroce da far affermare a molti storici che in Vandea si consumò il primo genocidio della storia contemporanea. Un giornalista francese che visse in Italia per diversi anni disse che gli italiani hanno un talento naturale per celebrare le sconfitte e screditare le vittorie. Che avesse ragione lui? Mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista su questo italico atteggiamento che sa tanto di masochismo morale.
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Cè una piccola differenza della quale tener conto, caro Francazi: la Vandea può anche rappresentare un nervo (semi)scoperto per i francesi, ma è stata archiviata sotto la voce: ragion rivoluzionaria. Quella che Mao Tze Tung sintetizzò nellaforisma: «La rivoluzione non è un pranzo di gala». In altre parole, per trionfare e illuminare di sé il mondo, la Liberté, lEgalité e la Fraternité, massime la fraternité, ebbero bisogno di sangue, molto sangue (non solo quello che corse a Parigi o in Vandea, pensi solo, alle esecuzioni in massa a colpi di cannone nella Plaine des Brotteaux, pensi alle noyades di Nantes...): prendere o lasciare. Al contrario, la retorica risorgimentale pretese che nel processo unitario non figurassero violenza o aggressioni, gesti del tutto inutili perché tanto i popoli anelavano a ricongiungersi con i piemontesi non vedendo lora di avere un solo re e una sola bandiera. E se fino a allora il fraterno abbraccio era mancato, la colpa ricadeva su un pugno di spietati tiranni che soffocavano, con la forca e le baionette, laspirazione dei tanto bravi patrioti. Insomma, non era necessario versar sangue, ancorché per la causa, proprio perché nessuno (salvo due o tre mascalzoni) era contrario alla causa.
In conformità alla «vulgata» si volle escludere, nel racconto dellepopea risorgimentale, il ricorso alla forza anche per sottomettere il Meridione al giogo di casa Savoia. Talché una sanguinosa, spietata guerra resa ancor più belluina dalla volontà di procedere a una pulizia etnica, fu liquidata come operazione di ordine pubblico. Come lotta al brigantaggio. Nel corso della quale si registrò un flusso di teste mozzate (dei «briganti») inviate, in qualità di trofei e sotto formalina, dal luogo delle operazioni a Torino, palestra di quella civiltà, di quel rispetto dei diritti civili da opporre, con la forza della ragione, non certo delle armi, alla barbarie delle Due Sicilie. E si verificarono episodi - stragi di civili, donne e bambini - come quello di Pontelandolfo. Bene, non potendoli comprendere nel novero dei danni collaterali perché scientemente e determinatamente pianificati, quegli episodi sparirono dalla storiografia risorgimentale. Goito, Monzambano, Calatafimi, Villafranca, Solferino, San Martino, sì. Pontelandolfo no. L«Obbedisco!» di Garibaldi sì. Il «Bruciate tutto e tutti!» del Maggiore dei Bersaglieri Carlo Melegari, no.
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