I punti deboli del Pdl Un premier forte senza partito

Non ho nessuna voglia d’associarmi a ipocriti gridi d’allarme - che sono in realtà mugolii di speranza - per il declino del Pdl. Il verdetto elettorale ha indicato con assoluta chiarezza il perdente della battaglia: che ha nome Pd. Il suo collasso è arrivato sulla scia d’una campagna propagandistica malsana che ha fallito tutti gli obbiettivi che si prefiggeva e raggiunto il solo che non si prefiggeva: una Caporetto dopo la quale è difficile intravedere, per Franceschini e alleati, il Piave d’una riscossa.
Mi sembra che le ragioni del disastro Pd siano evidenti. Mentre meno evidenti - e perciò meritevoli d’un esame attento - sono quelle dell’arretramento berlusconiano. Niente di catastrofico: anzi rose e fiori in confronto alla sorte toccata - con l’eccezione di Sarkozy - a tutti gli altri governanti europei. Ma il segnale c’è stato. E il traguardo del 40 per cento, da Berlusconi stesso indicato, rimane lontano. Questa battuta d’arresto è compensata, si osserverà, dalla crescita della Lega. Peggio che andar di notte, commenteranno a questo punto alcuni del Pdl, soprattutto nella componente di Alleanza nazionale.
Non credo che le vicende familiari e giudiziarie del Cavaliere abbiano molto pesato nel determinare il surplace del centrodestra. Altre ne sono state, a mio avviso, le cause. La prima è che nella coalizione, al solo Pdl sono state e sono addebitate responsabilità per la crisi economica. Bossi è nella felice condizione di chi può stimolare il governo come se stesse all’opposizione e nello stesso tempo menar vanto per i successi governativi. La protesta paga (vedi alle voci Lega e Idv), non paga invece il gossip (vedi alla voce Franceschini). Un’altra difficoltà berlusconiana deriva dall’esigenza di soddisfare elettorati opposti, il Nord che chiede efficienza e meritocrazia e il Sud che chiede spesa e assistenzialismo.
Da ultimo - ma meriterebbe il primo posto - va citata la debolezza del Pdl come partito. Berlusconi è un Napoleone del consenso: ma le strutture della sua «grande armée» sono deboli e poco compatte. Lo sono soprattutto al confronto con quelle di un partito fortemente radicato nel territorio, come la Lega.

Il centrodestra ha un condottiero con marescialli - o piuttosto colonnelli - modesti. Per lo più nell’ora del cimento il vicecapo, Gianfranco Fini, s’è defilato. La vittoria è venuta ugualmente ma il trionfo è mancato. Non è detto che sia peggio così.

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