I ribelli abbattono tutte le statue L’esultanza dopo la razzia: «Hai visto che cosa ho trovato?»

«Welcome to Bab al Aizizya», benvenuti a Bab el Azizia, grida un uomo agitando il suo kalashnikov, davanti all’entrata principale di quello che resta dell’enorme compound di Muammar Gheddafi. Il simbolo del potere del colonnello è caduto ieri nella mani dei ribelli poche ore prima del tramonto. Sono migliaia, entrano a tutta velocità a bordo dei loro pick up - il nome della brigata scritta con una bomboletta spray sulla portiera - su sgangherati motorini, a piedi. C’è perfino qualcuno che arriva pedalando su una bicicletta, il cestino davanti ricoperto da una bandiera delle rivoluzione - nera, verde e rossa - dietro un sellino per bambini.
Le due cerchia di mura del «castello» del rais, verdi e bianche, sono crivellate di colpi. Una parte è collassata a causa dei bombardamenti della Nato, che hanno sventrato anche l’asfalto del viale d’entrata. Su un enorme cancello in metallo, i fori dei proiettili fumano ancora, mentre alte colonne di fumo nero si sollevano da diversi edifici.
In migliaia si sono riversati ieri sera a Bab al Azizya, ribelli, rivoluzionari, euforici abitanti di Tripoli e delle cittadine vicine. Entrano ed escono dalle stanze di quello che era fino a poche ore prima il regno del colonnello Gheddafi, definitivamente segnato dalla violenta battaglia del pomeriggio, durata ore. Portano via di tutto: casse di fucili, un televisore a schermo piatto, intere valigie di oggetti, talmente piene da non chiudersi completamente. Un uomo trascina sull’erba del vasto giardino del compound un carrello dorato, di quelli per i liquori. Un ragazzo salta con in testa un cappello da generale dell’esercito libico, una pistola dorata alla mano. «Avete visto cosa ho trovato?», grida. C'è euforia ma anche molta tensione e in certi momenti ieri era difficile capire se i colpi di mitragliatrice pesante fossero in segno di celebrazione o un nuovo attacco dei sostenitori del regime. «Ho in corpo sei proiettili, ma ho continuato a combattere per sei mesi», dice Hamza Ali. Pochi secondi dopo, un ribelle centra con un Rpg l’enorme aquila in metallo - uno dei simboli del regime - che sovrasta la cupola rosa di uno degli edifici.
Al piano terra di quella che negli anni Ottanta era la casa del rais, bombardata dagli Stati Uniti, in quello che resta di una enorme teca ci sono le vecchie bombe scaricate dai jet americani sull’abitazione, trasformata poi in un museo. Di fronte, in uno spiazzo, un enorme pugno dorato spezza con forza un aereo da guerra. Decine di giovani uomini armati fanno la fila per farsi fotografare davanti al monumento. Da qui Gheddafi, all’inizio della rivolta di febbraio, ha tenuto il suo ormai celebre discorso, in cui definiva i rivoluzionari «ratti», da stanare strada per strada, vicolo per vicolo.

E nel grande giardino di palme del compound - dove sfrecciano suv e pick up carichi di armi saccheggiate in qualche deposito vicino - anche le celebri tende in cui il rais amava viaggiare e farsi riprendere assieme al suo entourage sono state strappate e abbattute. Ma di lui, mentre i ribelli celebrano la vittoria nel cortile della sua casa, tra quelle rovine non c’è traccia.

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