I sacerdoti della purezza che rendono il Carlo inFelice

I sacerdoti della purezza che rendono il Carlo inFelice

(...) dal Carlo Felice».
Il problema è che il ragionamento sintetizzabile in questo slogan è - a mio parere - quanto di più pericoloso per il Carlo Felice. Perchè la salvezza del teatro lirico di Genova può passare solo attraverso una maggiore produttività: se la sala apre i battenti cinquanta o anche cento sere su trecentosessantacinque, non è un buon segnale. E - visto che un teatro lirico è, quasi per definizione, in perdita cronica - qualsiasi scelta che può aiutare i bilanci va salutata con soddisfazione.
In questo quadro, l’operato del commissario Giuseppe Ferrazza va letto positivamente. E anche la sua idea di aprire il teatro a mondi altri, senza per questo snaturarlo, è ottima e abbondante. Soprattutto, può essere l’unica strada per continuare a programmare la lirica che piace ai puristi, ai sommi sacerdoti della verginità della programmazione.
Il messale è La Repubblica-Il Lavoro, dove Vittorio Coletti in un commento simpaticamente intitolato «Il manganello politico di Scajola e Bondi» racconta della consegna del teatro «in mani estranee che magari, come scrive Margherita Rubino, gli cambieranno il volto e le funzioni, facendolo più simile all’immagine di formato televisivo di cui si nutre la cultura del centrodestra».
A questo punto, la domanda è obbligata. Cosa scrive Margherita Rubino? Occorre andare sempre su La Repubblica-Il Lavoro per imbattersi nella denuncia di «non l’ombra, ma il disegno di una programmazione diversa, che verrà presto percorsa». Qualcosa di inquietante, sentite un po’: «Un teatro dell’opera è un teatro dell’opera. Può arrivare a ospitare Baglioni o Dalla, ma già così amplia le proprie funzioni come in nessun altro, dico in nessun altro teatro lirico di prestigio accade. “Aprire“ alla musica leggera era forse giusto e motivato, ma ha già creato esempi senza precedenti. Fiorella Mannoia o Francesco De Gregori hanno mai cantato alla Scala, alla Fenice, al Regio di Parma, al Costanzi di Roma?». E già qui devo una prima risposta: personalmente, ad esempio, ho assistito a un concerto di Claudio Baglioni al teatro dell’Opera di Roma. E allora? Che male c’è?
Ma la Rubino ne ha per tutti. È già preoccupata per l’idea di programmare al Carlo Felice la Concha Bonita di Nicola Piovani, la Tosca di Lucio Dalla e L’Opera da tre soldi con Massimo Ranieri protagonista. Abbinando la sua agitazione agli indignati speciali che fecero le barricate preventive contro l’allora sovrintendente Gennaro Di Benedetto per l’idea di avere nel cast di un’opera Al Bano nei panni di un cantante italiano che avrebbe dovuto interpretare una cavatina.
Ecco, io credo che questo modo di ragionare sia la rovina del Carlo Felice.

Ma è possibile essere così ciechi e sordi da non rendersi conto che tutta l’opera di Berio e Nono, tutta la dodecafonia, non valgono una nota di Notre dame de Paris di Riccardo Cocciante o delle canzoni di Tiziano Ferro, veri eredi del melodramma italiano? Da ascoltare insieme a Verdi e Puccini. Non al posto di Verdi e Puccini.
Ma capaci di fare incassi con cui poi si possono pagare anche Verdi e Puccini. Per la gioia dei sommi sacerdoti e delle somme sacerdotesse della purezza della programmazione.

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