«I salotti sono morti Solo Marco Polo potrebbe resuscitarli»

La stilista Lella Curiel rimpiange l’antica arte dell’intrattenimento: «Il villaggio globale è stato un colpo di grazia, ci ha tolto l’anima»

Enrico Groppali

Al numero 14 di Corso Matteotti c’è l’atelier della stilista più raffinata e racée di quella che, ai tempi di Stendhal, era definita «La bella Milano». Ma Raffaella Curiel, Lella per gli amici, preferisce definirlo sbrigativamente «il mio buco». E non certo per snobismo, dal momento che questa creatura d'eccezione che somiglia in modo sorprendente a Melina Mercouri quando, in Mai di domenica, un sari gettato sulle spalle da ninfa vagava tra le pietre del Teatro Antico di Epidauro, ignora cosa sia l’ingombrante volgarità della posa, del partito preso e dell’atteggiamento falso.
Lei è tutta franchezza, il suo sguardo a punta di diamante penetra l’interlocutore da parte a parte e persino ciò che, a prima vista, può sembrare alterigia si rivela in realtà come la più lombarda delle qualità che un tempo erano appannaggio dei concittadini di Carlo Dossi: la trasparenza. Ma facciamola parlare.
Signora Curiel lei, più di altre dame o signorine che si aggirano tra tende e bibelot, può dire la sua sul mondo del salotto. Dato che uno stilista, al giorno d'oggi, è il maitre à penser di una società. Esistono ancora questi luoghi dove un tempo si determinava con un’alzata di spalle o inarcando il sopracciglio il volto della società urbana?
«Ahi noi e soprattutto ahi lei che mi pone questa domanda! I salotti sono morti per sempre da quando il piccolo mondo della piccola Italia ha ucciso con un colpo di fioretto la borghesia che li aveva creati».
Come è potuto accadere?
«Le cause sono molteplici. Dapprima le vecchie famiglie che, sulla cultura con la C maiuscola e l’arte esclusiva dell’intrattenimento avevano fondato le loro fortune, si sono estinte senza colpo ferire. Poi è venuto l’internazionalismo, e quello è stato il colpo di grazia».
In che senso, scusi?
«La facilità degli scambi, gli spostamenti continui, l’inglese al posto dell’italiano hanno fatto di noi, Marcuse insegna, un villaggio globale. Che ha incrementato il mercato, ma ci ha tolto la nostra anima».
Eppure lei continua instancabile a ricevere. E mi si dice che casa sua è il crocevia dell’Europa...
«Vuole sfottere? Certo che ricevo. Per nulla al mondo rinuncerei ai miei amici. Io vesto più con le parole che coi tessuti».
Com’è nata la sua vocazione al disegno prima e all'imprenditoria poi?
«Per ragioni di famiglia. Mia madre, che adoravo, seguendo la tradizione di mia nonna Ortensia che a Trieste, sopra la libreria prediletta da Umberto Saba, aveva aperto una sartoria frequentata più dai letterati che dai clienti, disegnava in modo splendido. Io, più modestamente, abbigliavo bambole di pezza e sognavo di diventare il primo medico del mondo».
Cosa le fece cambiare idea?
«Forse Milano. Dopo che nel 1930, poco prima della promulgazione delle leggi razziali che discriminavano noi ebrei dal resto degli italiani, la prima sartoria Curiel fu distrutta da cima a fondo da un incendio, la mia famiglia abbandonò Trieste per sempre. E fu un bene perché nel ’50 mia madre, appena trentenne, fondò prima in via Durini e qualche tempo dopo nello stesso palazzo che ospitava la Banca Commerciale Italiana quell’atelier Curiel che, con soli centoquaranta lavoranti, destò l'interesse dei gentlemen inglesi e, subito dopo, dei newyorchesi più snob».
Mi ha risposto solo in modo indiretto...
«Nella nostra città dai Navigli interrati mia madre a un certo punto si ammalò ed io ero la sola che potesse, dovesse e alla fine volesse collaborare con lei. Le basta?»
Certo che mi basta. E da allora, a quanto mi risulta, non si è più fermata. Vero o falso?
«Verissimo. Morta la mamma e ceduto l’avviamento aziendale in mani estranee, non disarmai. Tanto che domandai subito a chi di dovere di poter continuare a svolgere il mio lavoro mettendo avanti la mia assoluta buona fede: mai e poi mai mi si potrebbe tacciare di concorrenza sleale».
Non ne dubito. Ma poi venne «il suo buco» e finalmente il successo del marchio che porta, inconfondibile, la sua firma. Mi dica, come mai si è ispirata, da una collezione all’altra, all’opera dei più grandi pittori del mondo?
«Un giorno mio figlio, che allora era un bambino, mi chiese a bruciapelo: "Mamma, come mai non sei famosa come Valentino?". Capii subito che dovevo darmi da fare se non volevo perdere la sua fiducia. Lei al mio posto cosa avrebbe fatto?»
Quel che ha fatto lei che, da Degas a Depero, non si è fermata più..
«Ha ragione. Perché, da un anno all’altro, mi sono dedicata a trasferire nei modelli, nello stile, nel colore l'universo di Schiele con le sue nubi purpuree e quello, languido e stilizzato di Dante Gabriel Rossetti».
Senza per questo far torto a Vermeer, Velasquez, Goya, Van Gogh e addirittura alla Parigi di Victor Hugo. Come mai?
«Perché la moda è un quadro in movimento come l'acqua del fiume della vita. Non se n’è ancora accorto? Ma l’ha studiato o no il comportamento dei cinesi?»
Dei cinesi?
«Stia calmo, non voglio certo farle la morale. Che, semmai, riguarda me stessa».
Vuole spiegarsi meglio?
«Avevo saccheggiato tutti i musei del mondo, sapevo a menadito come Klimt vestiva le sue donne e come Beardsley abbigliava le sue fate. Fu allora che, nel'97, mi venne in mente Il Milione che, dall'infanzia, non avevo più riletto.

Così mi imbarcai nella più fantastica avventura della mia vita...».
Ossia?
«Ossia varai una collezione intitolata “La via di Marco Polo”, il solo - lo scriva pure - che oggi riuscirebbe a rivitalizzare il salotto come specchio dell’umanità futura».

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