I samurai alla riscossa

Sono l’ultimo mito guerriero rimasto, quello che fa breccia persino nell’animo del più mieloso pacifista. Basta la parola - samurai - e anche il professorino cinefilo e occhialuto ha un fremito, un banzai!, che gli erompe dalle corde vocali solitamente timide e buoniste. Per rendersene conto basta un qualunque cineforum in cui proiettino I sette samurai, oppure Ran di Akira Kurosawa. Perché, in fondo, aveva ragione Mishima Yukio quando scrisse con mestizia e orgoglio: «Un giorno parlavo di spade giapponesi con una nobildonna inglese, la signora mi domandò: “come si combatte con quest’arma?”. Allora snudai la mia spada di fronte a lei e le mostrai un fendente obliquo. La signora impallidì e fu sul punto di svenire. Compresi allora che quanto impressiona gli occidentali non è la nostra letteratura ma le nostre spade...».
Quindi, se per il giapponese il samurai è un antenato, per l’occidentale è il mito della guerra senza la sporcizia della medesima, la furia che si fa tristezza e onore. E infatti basta fare un giro per le sale di Palazzo Reale a Milano dove si è aperta ieri la prima grande mostra italiana dedicata al mondo dei guerrieri del Giappone antico (chiuderà il 2 giugno), per accorgersi di come il pubblico sia eterogeneo, affascinatissimo e composto anche da bambini che, mirabile a dirsi, invece di sbadigliare urlano: «Mamma, mamma vieni qua guarda l’armatura, è veera!» (con buona pace della tv, di internet e della fine del museo).
E in effetti le bellissime corazze della collezione Koelliker e quelle della collezione del Castello Sforzesco (che si spera trovino presto collocazione fissa) sembrano quasi vive. Sono posizionate a riprodurre il guerriero seduto, le loro maschere in cuoio disegnano fattezze terribili con baffi di pelliccia e finte barbe. In posa marziale, ma sfavillanti di colore, raccontano l’estetica del sacrificio e della mischia. Perché se in Europa dopo Bertrand de Born tutti si sono guardati bene dal descrivere il piacere di una bella scaramuccia estiva, il Giappone feudale su questo strano piacere ha costruito un’etica, che ha attraversato intatta i tagli dei codini dell’era Meiji.
Perché il punto è proprio questo, di estetica si parla. Lo capisce una signora, digiuna di bushido, che fra tante armi di offesa e di difesa nota il glamour di una tasca di seta ricavata sull’esterno di un’armatura a molte piastre. Bella e ricamata, sembra quasi un elegante borsellino. E certo molti dei kabuto (elmi) esposti - raccontano il Giappone dal 1573 sino alla fine dell’Ottocento - si portano dietro più la polvere della parata che il sangue della carica.
Ma la distinzione è più sottile di quanto lo sia mai stata fuori dai territori dello shogun. C’è un kabuto a forma di testa di monaco, quasi carnevalesco con le sue grandi orecchie e le rughe (eppure evidentemente perfetto nella sua capacità di resistere ai colpi) e sopra qualche dimenticato guerriero ha scelto di farvi miniare i versi di Kamo Mabuchi: «Se qualcuno mi chiede/ dello spirito del Giappone/ risponderei che è nei fiori di ciliegio selvatico/ in piena fioritura». E le armature, i dô (corpetti), di fiori sono pieni come di ali di farfalla, che si accompagnano a più feroci draghi o alle piastre rosse come Ferrari dei «diavoli» del clan di Li Naomasa. Del resto la katana (tipica spada samurai) o la stessa naginata (falcione da combattimento meno arzigogolato dell’alabarda) pur nella loro furia letale non tralasciano mai l’estetica.
Un’estetica che colpisce tutti, profani ed esperti. Per rubare metafore a Marinetti: altro che Nike di Samotracia. Ma come mai il samurai è diventato, lui per natura solitario e alieno alla vita (in quanto amante della morte), così importante e magnifico per l’Occidente?
La risposta, geniale, arriva alla fine della mostra. La risposta è una stanza piena di robottoni di plastica: Mazinga Z, Gundam, Goldrake... E sul momento sembrano ancora armature. Ecco, il guerriero samurai ci è arrivato anche così, nella sua versione a disegni. Nel 1924 i giapponesi, filo-occidentali e stupefatti, assistevano al teatro Tsukiji di Tokyo ad un’occidentalissima rappresentazione: il dramma in tre atti di Karel Capek che per la prima volta introduceva a Oriente l’idea del robot. A cinquant’anni di distanza il Giappone restituiva agli europei i suoi robot giganti da combattimento, che altro non erano che la trasposizione onirica e fantastica del vecchio spirito del guerriero. E tutti i bambini, dagli anni Settanta in poi, se ne sono innamorati. Scoperto l’arcano, migliaia di frame che ci sono passati negli occhi dagli schermi della televisione rivelano quanto il samurai sia il coraggioso robot salva-umanità e viceversa. E l’elmo cornuto visto tre sale prima, pensato e realizzato nel XVII secolo, si sovrappone perfettamente ad Actarus e Goldrake. Con gli stessi colori sgargianti. Che, guarda caso, sono proprio i colori di Kurosawa (almeno in Ran dove il colore l’ha usato).


Così uscendo dalla mostra vien da pensare che Mishima, Yamamoto Tsunetomo e tanti altri cultori del bushido riderebbero vedendo quale strumento ha soggiogato la fantasia occidentale alla loro epica guerriera. Perché i samurai ridevano spesso, ma questo noi gaijin (occidentali) ce lo dimentichiamo. Rovina la favola.

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