Gian Micalessin
da Gaza
«Il coraggio di una nazione si misura dalle ferite che sa infliggersi per far rispettare la legge» - il colonnello me lo sussurra in un orecchio. Con pudore. La ferita è cento passi più su. Un blocco di cemento sulla collinetta. Brulicare di fanciulli, sventolare di drappi arancione e stelle biancazzurre. Israele ha coraggio e lo sta per dimostrare. Poliziotti e soldati sono tutt'attorno. Due cordoni di divise incatenate l'una all'altra. Quassù nel terrazzone delle sinagoghe sono rimasti solo gli zaini. Sono le 15, l'ultima trattativa è fallita. Tziviki Bar Hai, rappresentante del consiglio dei coloni sale la rampa. Si chiude nella sala di preghiera sefardita. «Ho chiesto a polizia e soldati di pregare con noi e poi di uscire tutti assieme... hanno rifiutato». Il coro di 600 ragazzini ha una voce sola. «Dio ascolta la voce del tuo popolo». Dieci adolescenti corrono su rampe e scale, le ungono d'olio. Sotto la testuggine s'avvicina, sale. Un uomo scende la rampa sud, si tira dietro una bandiera israeliana. La sventola come uno straccio davanti a fotografi e soldati. Due file di ribelli ragazzini l'osservano smarriti. Lui tira fuori l'accendino. Noah sventola la bandiera arancione degli insediamenti. «Non farlo è troppo». È smarrita, allibita. «Fermati, fermati», urlan in coro tutti gli altri. L'accendino non prende. Lo butta, tira due lembi del drappo, lo lacera a morsi. «No, no», gridano le voci bianche. Noah sventola la propria bandiera. L'uomo la strappa, la tira, la fa a pezzi. La sbatte sugli obbiettivi come carta straccia. Si rizza in piedi, alza la mano «Heil Hitler», urla impazzito dinanzi alla testuggine. «No, così no, così non si può», strilla Noah. Ha sedici anni, capelli neri al vento, occhi disperati. «Esagera, ma loro non devono entrare, non possono alzare la mano sulla casa del Signore». Un minuto e sono qua. Gettan sabbia sulle scale, sfondano come burro la fragile barriera frapposta da Noah e dalle esili amiche. Lei alza il suo vessillo. «Non potete». Scrollano via la sua rabbia. Lei li rincorre con lo straccio arancio, scappa nella sinagoga askenazita, mescola il proprio pianto a settecento voci. La sala, laddentro, nella penombra, è un convulso fremito di preghiere e lamenti. Le pasionarie arancione si son strette all'altare della Torah, guidan la preghiera. «Ti prego Signore aiuta i tuoi servitori». Noah è convinta. «Vedrai li fermeremo, le preghiere faranno il miracolo».
Fuori Lia si stringe la chioma bionda in un'unica crocchia, l'infila nel cappellino. Ripete tra sé e sé gli ordini del suo sergente. «Quando entriamo ricordate le istruzioni, lavorate in squadre di cinque, circondatele a una a una, quattro gli afferrano gambe e piedi, una fa strada verso l'uscita... non fategli male, se preferiscono camminare fateglielo fare... deve essere come una catena di secchi per gli incendi, appena portata una all'autobus tornate e pigliatene un'altra». Lia mi guarda. «Vorrei essere in un altro posto, magari in Italia, nel tuo paese adesso... ho il cuore spezzato eppure devo farlo, ma hanno la mia età... sono come me». Lia fa il primo passo. Entrano tutte. Loro le stringono al centro della sala. Per un secondo è silenzio. Il rabbino le saluta. «Spero soldati che siate qui solo per pregare con noi, non per un sacrilegio... altrimenti il pentimento vi macchierà l'anima. Per sempre». Una donna ufficiale si fa largo. «Non fateci soffrire, uscite, fatela finita, non costringeteci». Lia si tormenta la guancia. Sale una ragazzina di Neve Dekalim. «Ogni sabato in questa sinagoga pregavamo per voi, per i nostri soldati, ora voi i nostri eroi c'insultate, ci strappate dalle nostre case». Piange Lia, piange l'ufficiale, piangono tutti. I singhiozzi spezzano la preghiera. «Dio solo Dio, nient'altro che Dio». Fuori la capitana rossa di capelli strepita alla radio, chiede rinforzi. Dall'altra parte, nella sala sefardita gli uomini han già tirato fuori quaranta ragazzini. Qui un dolore astrale paralizza donne e uomini in uniforme. Dentro loro pregano assorte, indifferenti, estasiate. La capitana rossa riceve rinforzi. Due file di poliziotti uomini in cui far sfilare le sue ragazze, acqua, barelle e infermieri. Lia e le altre s'asciugan le lacrime tirano il fiato, stringon i denti, ricorrono dentro. Esce per primo un bimbo di dieci anni rosso di capelli. Cammina da solo, a testa bassa, vergognoso come se l'avessero scoperto nel gabinetto delle femmine. Poi la processione comincia. Cammina lenta una mamma di diciassette anni, il poppante attaccato al petto. Lei spinge il carrozzino, le soldatesse spingono lei. Squadra i soldati a uno a uno. «Ve ne ricorderete e vi pentirete». Poi è un solo, unico, infinito strazio. A uno a uno, hanno riempito dieci, venti, trenta autobus. Con ognuno di loro parte una manciata di estremisti ragazzini.
E mentre a Neve Dekalim si spegneva lultima resistenza, in unaltra sinagoga, divenuta la roccaforte degli irriducibili, a Kfar Darom, si consumava una vera e propria battaglia. Non erano più di cinquanta ragazzi ma decisi a non cedere. Hanno bersagliato dal tetto delledificio gli agenti in tenuta antisommossa con sassi, uova, vernice e acido. Ma alla fine hanno perduto, si sono arresi piangendo mentre i militari li calavano a terra. Al termine della giornata, si contano 58 feriti e 16 colonie sgomberate.
L'estrema difesa delle sinagoghe, assurte da luogo simbolo della religione a quello della resistenza, è così crollata. Non senza dolore. La processione di prigionieri continua. Come il loro solenne canto: «Ascolta o Signore la voce d'Israele».
Gian Micalessin
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