Meglio tardi che mai. Sergio Romano ed Eugenio Scalfari, in due editoriali sul Corriere e sulla Repubblica, si sono accorti, finalmente, il primo della crisi verticale della politica maturata negli ultimi quindici anni e il secondo dellintreccio tra banche, assicurazioni, industria e, aggiungiamo noi, grandi gruppi editoriali.
Come da anni denunciamo, crisi della politica e anomale concentrazioni tra finanza, industria e informazione sono due facce della stessa medaglia. Più crolla in credibilità la prima, più aumenta il potere autoreferenziale delle seconde in un circuito perverso al fondo del quale cè una grande questione democratica. Non si tratta, ovviamente, di contestare i principi delleconomia di mercato, e men che meno disconoscere i valori positivi di alcune grandi fusioni bancarie. Un Paese moderno, però, fonda la propria capacità di crescita «ordinata» e democratica se politica, finanza, economia ed informazione hanno soggettualità diverse e distinte, anche se reciprocamente influenzate. Riconoscere i profili, il valore e lindipendenza di ciascuna di esse significa riproporre, sotto forme più moderne, quella separazione dei poteri descritta da Montesquieu oltre duecento anni fa. Separazione che non è separatezza, naturalmente, ma non è neanche subordinazione dellun potere allaltro. È questa la nuova frontiera democratica che sfugge, non sappiamo se per colpa o per dolo, alle analisi di Romano e di Scalfari. Chi poi parla dellodierna crisi della politica paragonandola a quella del 92-93, come fa Massimo DAlema, incorre in un errore gravissimo. Senza ritornare a vecchie polemiche, basterà ricordare che nelle elezioni dellaprile 92 quattro partiti di governo ebbero il 51 per cento dei voti. Otto partiti dellattuale maggioranza non raggiungono il 50 per cento dei consensi. Allepoca i primi due partiti di governo (Dc e Psi) avevano il 45 dei voti, oggi Ds e Margherita sono al di sotto del 30 per cento. Nella crudezza di questi numeri cè tutta la crisi dellattuale politica per chi la vuole vedere.
Il nocciolo di questa crisi sta nellaver voluto contrapporre, quindici anni fa, alla democrazia dei partiti una vocazione elitaria del potere e del governo del Paese, tentando di metterla nelle mani dellestablishment economico-finanziario e della grande informazione. Un progetto elitario saltato nel 94 con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ma questa idea velenosa resiste ancora oggi, tanto che circoli culturali, grandi opinionisti e alcuni autorevoli parlamentari cercano la risposta alla crisi della politica non nella politica, ma nella legge elettorale che, con le sue tecnicalità, quale il premio di maggioranza, dovrebbe dare a questo o a quel partito quel numero di parlamentari che i consensi di ciascuno non consentirebbe di avere. In quale Paese dEuropa cè questo istituto del premio di maggioranza e la formazione delle alleanze politiche fuori dal Parlamento? In nessuno. Eppure, nelle grandi democrazie europee vi sono almeno due partiti di massa che hanno ciascuno il 38-40 per cento dei consensi. Ma da noi nessuno si chiede il perché. Piaccia o no, la via maestra, allora, è rilanciare, rifondandoli, veri partiti la cui scomparsa, in periferia, ha generato un crescente sfascio istituzionale, e che potranno essere partiti di massa solo se ancorati a grandi culture politiche e a una democrazia interna capace di selezionare nuova classe dirigente. Molti hanno visto nellelezione di Nicolas Sarkozy il trionfo dellantipartitismo. È lesatto contrario. Sarkozy, come Tony Blair, è un innovatore della politica, ma entrambi sono cresciuti nel cuore di due grandi partiti di massa democratici, il laburista e il gollista, ciascuno dei quali ha fatto crescere non un solo leader, ma interi gruppi dirigenti (gli inglesi Gordon Brown e Peter Mandelson, i francesi Pompidou, Balladour, Chirac, Juppé, De Villepin tanto per fare qualche nome).
Geronimo
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.