Da un paio di giorni non si vedeva più in giro. Dicono allungasse le notti fino allalba, che non fosse più lo stesso. Sera fatto crescere la barba, non dava più confidenza a nessuno, nemmeno a casa. Ma ieri, grazie a dio, lo hanno ritrovato, finalmente sereno: appeso a un ramo di un faggio nel bosco di Fessy, ucciso dal rimorso, condannato a morte da un'ossessione. Eric Jandin aveva 42 anni, una moglie, due figli, una cattedra di storia e geografia alla scuola media di Margencel, in Alta Savoia, e laffetto degli scolari. Per questo aveva pensato di portare i ragazzi, i suoi ragazzi, nella vicina città medievale di Yvoire, lo scorso due giugno, era la fine della scuola, era la fine e basta. Il giorno in cui ha cominciato a morire.
Lo scuolabus bianco e verde viaggiava spedito quella mattina, su una strada senza ritorno. Erano una cinquantina, le due prime medie della scuola, il prof, qualche genitore: i ragazzi cantavano. Fino al passaggio a livello di Allinges. La vita a volte è questione di un minuto, bastava un ragazzino in ritardo, un semaforo rosso, bastava un imprevisto qualsiasi. Sono passati quasi due mesi da quel giorno e la gendarmeria non ha ancora capito bene cosa è successo, perché quel passaggio a livello fosse incustodito, perché il treno regionale che collega Evian a Ginevra è arrivato sparato a 90 chilometri orari a quellincrocio, perché lo scuolabus fosse lì, al momento giusto nel posto sbagliato. È bastato un attimo per trasformare i canti in urla. Sette morti, tutti bambini, venticinque feriti, il secondo, per gravità, incidente ferroviario del genere in Francia, come recita una gelida contabilità statistica. Una carneficina.
Quattromila persone seguirono le piccole bare al funerale, Nicolas Sarkozy volle rientrare in fretta e furia dal vertice alla Fao di Roma per rendersi conto di persona, sul posto, di quello che era successo. Una tragedia nazionale. E solo perché lui, il prof si era messo in testa di portarli in gita, di volerli per forza guidare a Yvoire. Li aveva visti i suoi ragazzi sui binari, o almeno quello che ne restava, era incapace di farsene una ragione, ma non di scoprirsi assassino, quelle immagini avevano preso ad aspettarlo tutte le notti, senza bisogno che chiudesse gli occhi, la follia che ti ingoia, giorno dopo giorno. «Qualcosa si era spezzato dentro di lui - azzarda adesso Patrick Bermond, il preside della scuola media -. Abbiamo fatto di tutto per evitare che commettesse una sciocchezza, lo abbiamo persino mandato dallo psicologo». «Sapevamo che stava male da morire. Si sentiva colpevole per avere avuto proprio lui lidea della gita. Continuava a ripetere: ma cosa ho fatto? cosa ho fatto...» lo ricorda Flore Duthois, mamma di Marion, una delle ragazzine sopravvissute alla tragedia.
Eppure nessuno lo considerava un assassino, nemmeno chi tra le lamiere di quello scuolabus ha perso lunico figlio. Come Didier Cheyrouse, che non ha più il suo Benoit, 13 anni, che sedeva proprio sul punto dellimpatto con il treno: «È stato il preside a telefonarci, a darci questa notizia, ci mancava solo questo. È una catena che non finisce più, unecatombe. Fermiamo tutto, per carità». Lo conosceva bene quel professore dallo sguardo gentile, che non chiedeva molto alla vita: «Era venuto a casa nostra, a farci le condoglianze, a dirci che sarebbe stato sempre al nostro fianco. Certo, lo abbiamo visto che era sconvolto, era ipersensibile, non ha saputo sopportare il ricordo dei nostri bambini, su quei binari. Ha visto tutto, era lì, deve essere stato durissimo, ma chi poteva immaginare che lavrebbe fatta finita così? Nessuno di noi lo considerava colpevole, e di che cosa poi? Poteva morire anche lui quel giorno...».
Invece ha aspettato un mese e mezzo per raggiungere i suoi alunni, per non lasciarli soli almeno stavolta. Puntuale e preciso, come tutte le mattine. «E pensare che in questi ultimi giorni sembrava andare un po meglio...» si asciuga le lacrime il preside.
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