I suoi secondi 50 anni: tra crescita globale e terrorismo islamico

Dal boom italiano alla Guerra fredda fino all’11 settembre. I libri per capire una stagione che ha rivoluzionato il mondo

I suoi secondi 50 anni:
tra crescita globale
e terrorismo islamico

di Roberto Chiarini

La storia cosiddetta «recente», grosso modo quella degli ultimi cinquant’anni, ha un destino paradossale. O è letteralmente, una sorta di oscuro oggetto (per pochi ormai) del desiderio: questo capita purtroppo alle generazioni dei più giovani che, sulla carta, dovrebbero apprenderla sui banchi di scuola. O è conosciuta per immedesimazione, registrata cioè man mano che si snocciola davanti ai nostri occhi - e sentimenti - e quindi condannata a sedimentarsi nella nostra coscienza impastata con emozioni, passioni, partigianerie. In poche parole, si tratta di una registrazione dell’accaduto condizionata dalla vista corta dello spettatore. Tutto ciò va in sorte alle generazioni più anziane. Esse, in genere, non si arrendono a integrare il loro vissuto con una considerazione più larga, inserita, soprattutto, in una trama - e traiettoria - di più lungo periodo, all’interno delle quali solo e soltanto un accadimento si spoglia dell’inesorabile carattere di singolo, isolato fatto per diventare l’anello di una catena, il passaggio cioè di un cammino dotato di senso. È, questo, l’infausto destino della storia compresente a ogni generazione, ma vale ancor più per il nostro tempo. Gli ultimi cinquant’anni non sono una stagione qualsiasi del nostro passato. Nel giro di tre generazioni si è consumata una trasformazione che non è esagerato dire epocale. Se volgiamo lo sguardo all’indietro, la società dei nostri padri o nonni ci risulta irriconoscibile. Da un popolo di contadini (all’indomani della seconda guerra mondiale circa la metà degli italiani viveva ancora di agricoltura, in case prive di acqua corrente, di servizi igienici, spesso anche di luce) siamo diventati una nazione industriale matura (Sapelli, Storia economica dell’Italia contemporanea). La vita media si è allungata di venti o trent’anni. Dalla famiglia patriarcale siamo passati alla famiglia nucleare e sempre più alla condizione di single. La campagna, da centro gravitazionale totalizzante del nostro universo affettivo e lavorativo, è diventata quasi solo il rifugio nostalgico delle nostre nevrosi metropolitane. Il nostro orizzonte è uscito dall’ombra del campanile, all’interno della quale si svolgeva praticamente tutta la nostra vita, per spaziare, quasi perdersi, nelle latitudini un po’ di tutto il mondo. Cogliere lo spessore e il travaglio di una siffatta rivoluzione intervenuta nel corso di solo un cinquantennio non dovrebbe essere un esercizio intellettuale facoltativo da riservare agli ozi feriali, ma un’imperiosa necessità, almeno per chi non vuole vivere il proprio presente in balìa di processi e di forze non solo più grandi di lui, ma trattandoli anche come se fossero più misteriosi e insondabili di quel che non sono. La misura dei cambiamenti è sotto gli occhi di tutti: basta aprirli per rendersene conto. Molto più difficile è cercare una direzione di marcia di questo tumultuoso, convulso, spesso drammatico corso della storia. In parte sta proprio qui il limite della conoscenza dei «tempi recenti». Non conoscendo durata, termine e portata delle trasformazioni cui stiamo assistendo, c’è il pericolo di assegnar loro un ruolo, un senso, un’influenza che magari, col senno di poi si scoprirà non avevano. Nell’immediato siamo portati, inoltre, ad assegnare rilevanza agli eventi più clamorosi e spettacolari, salvo accorgersi a distanza anche di poco tempo che non è rimasta traccia di loro. Basti pensare ai ricorrenti fatti di cronaca nera: tanto capaci di catturare una spasmodica attenzione quanto condannati a finire presto nel dimenticatoio. Ma la difficoltà di attribuire un ruolo più o meno «storico», si sconta anche per avvenimenti ben più vasti. A esempio, abbiamo vissuto la lunga stagione della «guerra fredda» come correndo sull’orlo di un abisso e ci siamo resi conto, alla sua fine, che viceversa era la miglior garanzia di un ordine mondiale (Petrignani, L’era americana). E ancora: l’attentato alle Torri Gemelle, come dobbiamo giudicarlo? Va inserito di forza nei libri di storia perché segna lo scatenamento di una «guerra di civiltà» destinata a connotare un intero secolo o ci si deve limitare a inserirlo nel purtroppo ricco elenco delle tante atrocità consumate nel secolo scorso nel nome di una causa politica imposta da ideologie che hanno scambiato le proprie allucinazioni per sacre missioni da compiere, costi quel che costi, anche migliaia di vittime? Come non è facile cogliere un senso unitario a questo ormai lungo dopoguerra, così dobbiamo esser pronti a registrare cambiamenti impensabili fino al giorno prima, a correggere giudizi che credevamo incrollabili, a scoprire verità che ci sono passate vicine o a prendere atto di processi nei quali eravamo immersi e di cui non abbiamo percepito nemmeno l’esistenza. Il «miracolo economico» degli anni Cinquanta ci ha visto tutti partecipi e, per lo più, anche protagonisti ma pochi di noi sono stati capaci di cogliere quale grande, sconvolgente trasformazione rappresentava? Quante generazioni hanno speso le loro migliori energie nel nome di una causa - il comunismo - che sembrava «il sol dell’avvenir», oltre che il paradiso promesso, e che all’improvviso si è scoperto essere solo un fuoco fatuo, oltre che un inferno per chi l’ha sperimentato sulla propria pelle (Lehner, Carnefici e vittime, Maier, Il crollo)? Che giudizio dare di questa nostra scombinata repubblica, perennemente bistrattata, da non pochi vilipesa, combattuta da non trascurabili minoranze, attraversata da convulsioni anche terroristiche che hanno fatto disperare sul suo futuro, ma che, tutto sommato, ci ha assicurato insieme una società del benessere e una convivenza democratica impensabili all’indomani di una guerra distruttiva persa, costata lutti e distruzioni, di una guerra civile lacerante destinata a lasciare ferite sanguinanti nel corpo della nazione, di un collasso delle istituzioni e della stessa classe dirigente senza, peraltro, che il Paese disponesse di risorse economiche e di infrastrutture tali da fargli sperare una facile ricostruzione economica e una scontata ripresa della vita democratica? Nessuno dei testi proposti dal Giornale è in grado di offrire una risposta esaustiva a questi interrogativi.

Ma che possa svegliare l’attenzione e, magari, mettere in moto una spirale allargata, fatta di utili acquisizioni, di inedite riflessioni, di stimoli creativi di altre domande, di nuove scoperte, insomma che avvii un percorso di crescita culturale e anche - il che non guasta - di educazione civica, di questo si può star sicuri.

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