Cultura e Spettacoli

I teatri perdono 400 milioni Il Regio si crede Hollywood

Mentre si protesta contro i tagli, a Torino l’«Aida» costa come un kolossal. Ai palchi lirici 570 milioni di euro l’anno

Gabriele Villa

Certo se stanno così le cose fanno bene. Fanno benissimo «a chiudere un giorno per non chiudere per sempre», come in coro oggi i lavoratori dello spettacolo, sindacati e sindacalisti in testa urleranno al Capranica di Roma. Chiusi i cinema, i teatri, le sale di cabaret. Motivo della grande serrata una finanziaria poco sensibile al nutrimento dell'anima e della mente che taglierà, o meglio dovrebbe tagliare, visto che in commissione al Senato, proprio ieri, sarebbero emersi segnali di distensione, i finanziamenti al mondo dello spettacolo. Quaranta per cento di risorse in meno che decurterebbero il Fondo Unico (Fus) dagli attuali 464 milioni di euro a 300 milioni. Cartelloni dei grandi teatri lirici in pericolo, rappresentazioni teatrali che, magari, saranno condensate in un atto anziché in tre, balletti che rimarranno sospesi nell'aria. O meglio sulle punte. Ma le cose, forse, non stanno proprio così. I tagli che la finanziaria 2006 imporrebbe al mondo spettacolo potrebbero giungere salutari. Per alleggerire un carrozzone dove le inefficienze, gli stipendi gonfiati, i costi inutili, in una parola: gli sprechi vengono contrabbandati da anni per scelte lungimiranti e culturalmente valide. Come l'ultima clamorosa scelta del Teatro Regio di Torino che avant'ieri, nella serata inaugurale ha offerto proprio uno spettacolo paradossale ed emblematico di come possano essere buttati con una sola opera i finanziamenti statali di un'intera stagione. All'apertura del sipario, orchestra, coro e cast di canto, schierati sul palcoscenico, hanno letto un'accorata nota di protesta contro i «tagli» alle sovvenzioni, disposti dal governo. Il sipario si alza, inizia l'opera e il pubblico allibito vede il più straripante sfarzo (è il caso di dire faraonico trattandosi dell'Aida) di tipo hollywoodiano mai apparso sulle scene della lirica. Un kolossal di ispirazione cinematografica, voluto da un regista di Hollywood, William Friedkin (Il braccio violento della legge, L'esorcista) senza esperienza lirica. «Sono stato consigliere di amministrazione del Teatro Regio di Torino e ho sudato sette camicie per razionalizzare allestimenti e incentivare i risparmi - ha dichiarato ieri il baritono Giuseppe Zecchillo, segretario degli artisti lirici -. Non lontani sono gli scandali di certi teatri, inquisiti per tangenti, malversazioni e quant'altro. Non sarà il caso del Teatro Regio, comunque i legali del nostro sindacato stanno preparando un esposto alla magistratura torinese per appurare se gli sfarzi di questa Aida abbiano comportato sprechi e irregolarità. Considerato che il sovrintendente del Teatro Regio di Torino, Walter Vergnano, è stato uno dei più accesi contestatori dei tagli alle sovvenzioni statali guarda caso proprio lui spende quasi tutti i soldi della stagione per un unico allestimento». Ma il discorso si può ampliare. Sapete quanto costano ogni anno alla comunità i tredici teatri lirici italiani? Oltre 570 milioni di euro. Sapete quanto hanno perso dal 2000 al 2004? Cento milioni di euro. Pur diventati autonomi, gli enti lirici restano tutti avviticchiati allo Stato che scuce per loro 253 milioni, cui se ne sommano altri cento degli enti locali. Morale? Non c'è uno spettacolo che, nonostante i contributi pubblici, chiuda in attivo. Per una carenza cronica di spettatori (due milioni e mezzo di biglietti venduti nel 2003 a un prezzo medio di 36 euro). E per un fardello di costi inutili o doppi. Scenografie che vengono fatte e rifatte ex novo per la stessa rappresentazione che trasloca da un teatro all'altro, mentre sarebbe più facile magari affittarle. Scenografie, e questo ci sembra un caso clamoroso, costate un miliardo e duecento milioni di lire e per il mega allestimento di un Don Giovanni di Ronconi nei primi anni Novanta e finite recentemente in fumo nelle stufe del Comunale di Bologna che aveva commissionato l'opera perché ,in tutto questo tempo, non si è riusciti a riciclarle ad altri teatri per la rappresentazione delle medesima opera. Perché l'Emilia Romagna, altra testa di serie negli sprechi lirici, è riuscita lo scorso anno a mettere in cartellone la Traviata in quattro città differenti con quattro allestimenti differenti. Risultato: i bilanci del 2003, ultimo dato aggiornato, si sono chiusi in rosso in nove casi su tredici (tranne il teatro dell'Opera e il Santa Cecilia a Roma, Genova e Verona). Gli altri, in testa, pare, il Regio di Torino, hanno totalizzato 28 milioni di deficit e che nel 2004 sarebbero già lievitati a 40 milioni di euro. In più stipendi e cachet per gli artisti spesso fuori mercato. Lo stipendio medio di un dipendente del Verdi di Trieste e di 61mila euro all'anno, di 45mila al Comunale di Bologna. Dalla lirica al cinema. Per esempio qualche perplessità è giustificata per alcuni contributi concessi dallo Stato nel 2004 a festival e rassegne di cinema ma non solo di cinema. Vediamone alcuni in ordine sparso: 370mila euro alla cineteca del Comune di Bologna per «attività istituzionali» che, francamente ci sfuggono, sempre a Bologna i 125mila euro concessi per la mostra del cinema libero. Anche se non si sa bene libero da cosa. Poi 100mila euro per un film di documentazione sociale al festival dei Popoli di Firenze, altri centomila all'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico di Roma, 150mila per un, non meglio definito, progetto speciale elaborato dall'associazione culturale Napolicinema. Ma ci sono anche, a suscitare perplessità, i 115mila euro scuciti dallo Stato per il sindacato nazionale dei critici cinematografici italiani, i 50mila all'associazione culturale amici di Filmcritica di Roma, i 55mila all'Associazione culturale Il viaggio di Ulisse di Siena, i 40mila euro per l'istituto per il cinema e l'audiovisivo dei Paesi latini. In fondo un giorno, un giorno in cui lo show non continua, può servire a riflettere. Magari anche sulle parole di una sceneggiatrice storica e pure di sinistra come Suso Cecchi D'Amico: «Per far rinascere il cinema italiano, in un momento così poco interessante e così poco creativo, l'ideale sarebbe azzerare tutto. Niente finanziamenti statali, nessun aiuto obbligato, nessuna concessione da parte del sistema politico, comunale o governativo che sia.

È l'unica strada percorribile per dare la possibilità a chi davvero ha delle buone idee e dei buoni progetti di vederli realizzati».

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