Cultura e Spettacoli

I «Tempi moderni» d’un profeta: l’apocalisse riscattata dall’amore

Cesare G. Romana

da Milano

La voce, intanto. Aspra, di naso, riarsa. «Il vento del deserto», la definì De Gregori. E Dalla: «È così certo del suo genio da non aver bisogno del bel timbro, dei bei suoni, di tutte le cose rassicuranti di cui abbiamo bisogno tutti». Ecco, ritorna dopo cinque anni Bob Dylan, e il vento riprende a sibilare nel deserto, che è poi quest’epoca senza oasi. Questi modern times senz’anima: così s’intitola il nuovo album, in uscita giovedì e si ha un bel dire che il tempo riserva, ai talenti del pop, nient’altro che effimere sussistenze. Vero, ma Dylan è ben altro. Appartiene, semmai, all’esile stirpe dei poeti: «Non sono un cantante», suol dire. E infatti: la sua è voce recitante, dei poeti declama la supponenza disarmata, insieme alla chiaroveggenza dei profeti - due razze quasi omologhe, diceva Pasolini che ad entrambe apparteneva.
A me la voce di Dylan «cantante» evoca quella di Ungaretti, quando scandiva le sue liriche nel modo cavernoso, sghembo, omerico che nessun dicitore di professione avrebbe osato. Gassman o Carmelo Bene avrebbero fatto di meglio, ma quello non era un attore che declamava un poeta, era un poeta che smascherava se stesso. Dylan è così: in Modern times torna a tradurre le sue liriche in fluente melologo, e ad avvolgerne i testi nel mistero capzioso della poesia. Ne segue che Modern times, aperto da un soavissimo omaggio ad Alicia Keys, è un grande album, a giudicare dagli avari, blindatissimi ascolti che la casa discografica, figurarsi, ne ha consentito ai critici: insufficienti a un’analisi vera, ma bastevoli a intuire i barbagli di passione e apprensione, disincanto e speranza che il cantore - qui anche arrangiatore, produttore e pianista - vi effonde. Gli arrangiamenti perentori eppur meditativi, il transito delle musiche - folk, blues, jazz, rockabilly - tra melodia assorta e ritmo frizzante. E il liquido lirismo del pianoforte, l’armonica che s’insinua come un clarino tra l’impazienza delle chitarre e le nuances degli archi.
È in questo intreccio mutevole che trova spazio per la poesia, quel simbolista impunito che è Bob Dylan: figlio cadetto di Blake e Rimbaud ma aperto - ancora De Gregori - «a latitudini omeriche». Con la musica che «rotola come un tamburo» tra montagne in tempesta e lune in fiamme, e lui «alto sull’inferno» a bussare alle porte del cielo. Con «l’anima che comincia ad espandersi» tra i paradisi della memoria e dell’attesa, nel tempo che si destreggia tra il sogno memore e la realtà incognita. Ché Modern times è, prima che un viaggio nell’oggi, un viavai tra l’ieri e il chissà. Di ieri, si sa che «ho congiurato contro questa lunga morte delle anime», per finire, «primogenito d’un pazzo, in una cowboy band», quando a ben altri traguardi pareva chiamarci il destino. Del domani non v’è certezza, se non che «continueremo a girare intorno/vivendo e morendo senza sapere perché».
Allora l’oggi. Qui, il poeta l’identifica in una rinnovata voglia d’amore, ultima spiaggia e rivalsa estrema. «Ho cercato d’amare il mio prossimo e di giovargli, ma non funziona», ammette in Ain’t talkin’. La giustizia sociale? «Va a fondo il potere d’acquisto dei proletari», dice in Workingman’s blues. Del resto, il biblista invasato di Saved ha appreso, da Lutero, che solo attraversando l’inferno s’arriva al cielo. E allora «attraverso la fiamma e il fuoco/ costruirò il mio mondo attorno a te». È così che la poesia ritaglia, nell’Apocalisse di un’America crocifissa, un’oasi di stupefatta ingenuità, e nel prodigio d’amore si compone il dissidio tra memoria e futuro: «Girando intorno alla mezzanotte/ il vento notturno soffia un tema di molte lune addietro/ suonano dolcemente le campane di Saint Mary/ e t’ho trovata di là dall’orizzonte», annuncia, appunto, Beyond the orizon.
«Ciò che ami davvero rimane/ il resto è scoria», cantava Ezra Pound. E a quarant’anni dalle fosche profezie di A hard rain’s gonna fall, è in quest’ipotesi di speranza che Modern times trova la sua provocazione vitale, nell’epoca disamorata e violenta cui il titolo allude.

«Guardo nei tuoi occhi/ non ci vedo altro che me/ questo è tutto quanto sono e spero di essere», canta oggi Bob Dylan, e gli archi effondono chiarori aurorali, il pianoforte ha trasparenze di perla, la voce ha il timbro inatteso, accanito dell’utopia.

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