I tormenti di Ferrara: «Sono angosciato, ditemi se fare la lista»

Il direttore del Foglio in un editoriale confessa i suoi dubbi sulla corsa alle urne

da Roma

Ancora due notti di poco sonno e, stando all’interessato, pure zeppe di «angoscia». L’Elefantino sfoglia la Margherita e chiede ai suoi cultori e naturalmente anche ai nuovi amici anti-abortisti cosa pensino della lista per la moratoria. Presentarla o no?
Dopo le certezze granitiche di solo qualche giorno fa («Abbiamo tra il 4 e il 6%. Senza apparentamento con il Pdl corriamo da soli...»), Giuliano Ferrara fa trapelare un piccolo ma significativo dubbio: nell’editoriale di ieri che apriva Il Foglio ha chiesto ad amici e adepti cosa pensino della battaglia cui ha pensato di partecipare esponendosi in prima persona. Non è semplice vezzo: da giorni ormai il quotidiano annega tra le missive di incitamento e quelle (poche) di critica. Né si può credere che il suo messaggio - condito dall’avvertimento che venerdì è il giorno della deposizione del simbolo elettorale - sia una sorta di ultimatum indirizzato a palazzo Grazioli. Proprio l’Elefantino ricorda del resto come, pur sostenuto da tutto il Polo della Libertà, ebbe a sfidare nel Mugello «un magistrato che allora era più popolare di Maradona», lasciandoci le penne senza alcuna sofferenza. Se sarà insuccesso, tiene a far sapere, sarà mio e solo mio. Ma non traccheggia certo per il timore di un disastro nelle urne, assicura. Visto che, secondo lui, si tratterebbe non del fallimento di una idea nuova che «si sta facendo strada in mille forme, prendendo mille strade», ma molto più semplicemente dell’affondamento del tentativo «di una irruzione nella politica dei partiti, nelle loro logiche tifose e assolutiste».
E però Ferrara esita. Dice di avere ancora «uno scrupolo, un tentennamento». «La fase finale è la più dura, la più obliqua, la meno semplice da percorrere», si limita ad evidenziare. E a questo punto rivela che per lui è dunque «importante sapere come la pensiate. E urgentemente».
Scontato che oggi Il Foglio sia zeppo di incitamenti a proseguire la marcia, ad affondare la lama nelle circoscrizioni della Camera - visto che l’Elefantino ha precisato che è bene offrire ai cittadini la libertà di votare per il governo che preferiscono al Senato, dove la legge elettorale obbliga alle coalizioni - e a buttarsi le perplessità dietro le spalle. Meno scontata invece, a quanto si mormora, la decisione finale di Ferrara. Presentarsi o passare la mano? Ma ancora e soprattutto: perché questa impasse ad un passo dal traguardo? C’è chi giura che i tentennamenti siano dovuti alla scarsa attenzione - diversamente da Benedetto XVI - della Conferenza episcopale italiana per la sua iniziativa, tutta impegnata, come sarebbe, nella difesa dei partiti di radici popolari e cristiane. Chi invece sostiene che ci si sarebbe resi conto del poco fiato in canna per la raccolta delle firme necessarie. E chi ancora vede l’Elefantino specialista di memorabili coup de théâtre seguiti invariabilmente dalla deposizione delle armi. Malignità, probabilmente.
Perché al nocciolo della questione si arriva forse leggendo tra le righe un paio di comunicati diffusi ieri dallo stesso Ferrara in replica a D’Alema (sì, proprio quello che Giuliano voleva fortemente al Quirinale...) che a Ballarò la sera prima si era lanciato in furente difesa della legge sull’aborto e delle risse sull’etica che si vanno ampliando a sinistra. Ferrara replica al ministro degli Esteri che il suo recitare «la filastrocca ormai stucchevole della 194 che non si tocca» non lo dovrebbe esimere dal capire che il suo movimento per la moratoria non propugna alcun obbligo a partorire ma semmai «la libertà di non abortire», mentre ai litigi cattolici-laici che ardono a sinistra replica che occorrerebbe lasciar da parte «convenienze e particolarismi» come cerca di fare lui. Presentando una scelta di voto che si riferisce «ai temi che contano» e che dunque non è certo «un altro partitino o un’altra listarella, ma un’altra cosa».

Fino a ieri si conoscevano i pessimi one man party, oggi si passa all’one objective party. Un passo avanti. Ma ne vale la pena farlo in Parlamento se si cerca un consenso più ampio e diffuso? Pare questo il dubbio dell’Elefantino.

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