Cè sempre, in Europa, un ministro degli Esteri per il quale la reazione israeliana «è sproporzionata». Questa volta è toccato a Massimo DAlema in compagnia del suo collega francese Philippe Douste Blary puntare lindice sul governo di Gerusalemme. Un triplo errore: in primo luogo perché si dimentica lorigine di questa drammatica crisi, cioè il sequestro dei militari di Tsahal e lattacco venuto dal Libano, dopo i bombardamenti da Gaza; poi per la sottovalutazione del pericolo costituito dalloffensiva scatenata dallalleanza estremista composta da Hamas, Hezbollah, Siria ed Iran; infine per la seconda presa di distanza nel giro di pochi mesi, dopo la decisione di ritirarsi dallIrak, dalle democrazie attaccate dal terrorismo.
Nella posizione del leader ds non centrano nulla i condizionamenti della sinistra antagonista. No, qui è espressa compiutamente la visione ulivista, con il cerchiobottismo in politica estera, con la storica diffidenza nei confronti di Israele, con la pretesa di un ruolo terzaforzista dellEuropa, con unideologia che identifica la parola guerra solo nella risposta di una democrazia ad un atto di aggressione. Qui cè tutta la cultura politica della sinistra italiana, cè il marchio di fabbrica dellUnione, trasferito con DAlema alla Farnesina e con Prodi a Palazzo Chigi. Qui cè la volontà di non capire quel che realmente sta accadendo: cioè la riapertura del vecchio fronte, con lennesima prova di forza ingaggiata contro lo Stato ebraico, questa volta dalla santa alleanza dellestremismo e dei regimi-canaglia.
È dal 2000, dallinizio della seconda intifada, che una parte dellOccidente è impegnata ad alimentare lequivoco di una pace possibile alla condizione di spezzare la spirale terrorismo-rappresaglie e più in generale sono parole di DAlema pronunciate dopo l11 settembre di «prosciugare i serbatoi di odio». È stato questo equivoco prima ad indurre Arafat a guidare i palestinesi alla loro ennesima sconfitta e poi a contestare limpegno ad aprire, in Irak e in Afghanistan, la via alla democratizzazione, a non vedere lurgenza di bloccare il programma nucleare iraniano, a confidare nella «costituzionalizzazione» sia di Hamas che di Hezbollah, a non sostenere fino in fondo il ritiro unilaterale da Gaza, deciso da Sharon e da Olmert, e a trascurare limpatto del terrorismo dei kamikaze, dei missili Kassam o dei razzi Katiuscia. È lequivoco in virtù del quale Israele è considerato il problema e non una delle soluzioni della questione mediorientale.
E quando si dice che la reazione decisa da Gerusalemme «è sproporzionata» non si fa altro che alimentare questo equivoco, perché in realtà si afferma che non è riconosciuto allaggredito il diritto alla difesa, in un conflitto in cui lesistenza di una democrazia occidentale consolidatasi in Medio Oriente è garantita in primo luogo dai rapporti di forza militari. Israele è sopravvissuta grazie a se stessa e allalleanza con gli Stati Uniti, non in virtù delle risoluzioni dellOnu o delle architetture diplomatiche elaborate in Europa. Direi di più, quando è colpita ha bisogno di usare la forza, di esercitare la deterrenza di cui dispone proprio perché una parte del vecchio continente Francia in testa non perde occasione di lasciarla sola. Al contrario, ha avvertito sicurezza quando ha trovato forti interlocutori europei, come lItalia del governo Berlusconi.
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