«I tre scelti? I migliori tra quelli visionati»

Müller difende gli italiani in concorso: «Il film di Mazzacurati non era pronto»

da Venezia

«I verdetti delle giurie non si commentano», scandisce Davide Croff con voce arrochita. «La giuria è sovrana», rafforza Marco Müller, pur sapendo che l’ex-aequo reintrodotto in extremis per sbloccare la situazione, dopo il via libera del cda della Biennale, getta un’ombra poco simpatica sul palmarès della 64ª Mostra.
Di prima mattina, mentre gli operai smontano la cittadella del cinema, i cronisti rimasti incontrano direttore e presidente. «Io e Marco ci prendiamo solo due giorni di vacanza, poi ricominciamo», assicura Croff. Sarebbero entrambi in scadenza di mandato. Sempre che Rutelli, deciso a risolvere la questione attorno al 30 settembre, non abbia rassicurati entrambi. Si spiegherebbe così la frase pronunciata dal presidente durante la cerimonia di premiazione: «Stasera chiudiamo un sipario, ma domani ci aspettano nuove sfide».
Müller, se il ministro le chiede di rifare il direttore artistico, che fa?
«Non è il momento di parlarne ora, vedremo. Vorrei solo ricordarle che sono il direttore del settore cinema della Biennale, non un direttore artistico».
D’accordo. Fosse stato in giuria per chi si sarebbe battuto?
«Per La graine et le mulet di Abdellatif Kechiche e The Darjeeling Limited di Wes Anderson. In quest’ordine».
Certo, Kechiche non è apparso un gran simpaticone. Musone, risentito, permaloso. Ha addirittura liquidato come «modesto» il Premio speciale della giuria.
«In effetti. Il suo film trasuda umanità, ma l’uomo è antipatico, scortese. Gli ho pure consigliato, per il bene del film, di tagliare 45 minuti rispetto al primo montaggio. Magari si sentiva già il Leone d’Oro in tasca».
C’è stato un attimo, tra venerdì sera e sabato mattina, in cui tutto è sembrato saltare?
«Dopo dodici ore di discussione, vista la personalità dei sette registi-giurati, s’era creata una situazione di stallo. Per risolvere la crisi, non volendo Zhang Yimou imporsi o far valere doppio il suo voto, c’è voluto l’intervento di Croff. Il regolamento parla chiaro: non sono permessi ex-aequo. Ma per il Premio speciale in giuria erano divisi a metà: tre per Kechiche, tre per Haynes, con il presidente in mezzo. Senza accordo, qualcuno sarebbe rimasto in albergo».
Fuoco ad alzo zero sui tre italiani. Riprenderebbe tutti e tre?
«Resto convinto, con i miei selezionatori, che i film di Franchi, Porporati e Marra fossero i migliori tra i settanta visionati. S’è discusso, anche votato. E poi, cari ragazzi, a leggere Screen International e Variety, Nessuna qualità agli eroi di Franchi viene accostato al cinema di Antonioni. Ma pensate davvero che Zanasi, la Guzzanti o Maira avrebbe avuto lo stesso successo una volta piazzati in concorso? Ma andiamo! Mi dispiace per La giusta distanza di Mazzacurati. L’abbiamo visto intorno al 20 luglio, in un montaggio provvisorio, troppo provvisorio per decidere».
Così Mazzacurati va alla Festa di Roma, mentre Bettini sostiene che Venezia s’è rilanciata grazie alla concorrenza romana.
«Fantastico! Vorrà dire che la Festa capitolina è riuscita a precisare meglio ruoli e caratteristiche dei festival».
Due Leoni d’Oro ad Ang Lee in tre anni. Non sarà un’esagerazione?
«Ripeto: la giuria è sovrana. Ma cose del genere accadono. Alexander Kluge vinse un Leone d’argento nel 1966, uno d’oro nel 1968. Lo stesso, più tardi, Zhang Yimou».
A proposito di Zhang Yimou.

Che presidente di giuria è stato?
«Straordinario. Un fine diplomatico capace di escogitare le soluzioni giuste. Anche un uomo coraggioso: pensate che sia facile per un cinese della Repubblica popolare premiare un collega di Taiwan?».

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