I vizi dei Ds? Ereditati da Togliatti

Nelle interviste dei capi e dei luogotenenti della Quercia, e nel documento della direzione, si colgono, seppur molto tardivi e imbarazzati, accenni di autocritica, più tattici che sinceri, parziali correzioni di rotta, tentativi, più o meno goffi, di sganciamento dai personaggi alla Consorte. Che, peraltro, né D'Alema e Fassino, ma solo Fabio Mussi ha avuto il coraggio di definire dei «razziatori, speculatori, gente che pensava solo ad arricchirsi». Ma, osservandone, nelle loro esternazioni televisive, i volti, tesi e contratti, la stizza, a stento contenuta, con la quale rispondono ai loro contraddittori, i telespettatori non possono non rendersi conto che la mentalità dei capi diessini, ereditata dai vecchio Pci, è tutt'altro che scomparsa. Guardando Massimo Brutti che, nel programma di Ferrara, urla, paonazzo in viso, il suo disprezzo nei confronti del direttore e dei lettori del Giornale e assistendo, a Ballarò, al fluviale comizio di Bersani, che minaccia l'ennesima querela al ministro Castelli, non si può non rilevare che in molti postcomunisti permangono tutti i vizi, che erano presenti nei big del partitone rosso di Togliatti, Longo e Berlinguer. Innanzitutto, la tendenza a scomunicare, d'imperio, quanti, pur se appartenenti al mondo della sinistra, osano dissentire, o si permettono, con civiltà, di avanzare qualche critica schietta ai comportamenti e alle scelte della diarchia. «Il segretario non sbaglia mai»: di questo dogma, in auge nel Pci, si rilevano ancora tracce, tutt'altro che lievi, nelle reazioni degli ufficiali delle smarrite truppe diessine alla bufera Unipol.
Dopo Tangentopoli, Occhetto piombò nella sezione della Bolognina e chiese scusa al «nuovo» Pds, ma la trasformazione e il rinnovamento si sono fermati in superficie e non hanno interessato i quadri dirigenti e intermedi della Quercia. La faziosità è quella d'antan: tuoni e fulmini, e niente collegio, in aprile, per gli esponenti, che dissentono, seppur timidamente, dagli altezzosi Fassino e D'Alema. È, dunque, molto meglio, e conveniente, continuare a lavare, in casa, i panni sporchi, per i compagni e per gli alleati dell'Unione, che preferiscono, tenendo famiglia, profondersi in peana, evidentemente richiesti e graditi, delle elevate qualità morali dei capi del primo partito della galassia prodiana.
Se, in parte, è vero che la diffusione delle telefonate tra Fassino e Consorte e il clamoroso tonfo dei «furbetti del quartierino», pochi mesi fa esaltati come grandi e indomiti capitani d'industria e oggi brutalmente scaricati, hanno infranto il mito della superiorità etica degli ex comunisti, non hanno affatto cancellato l'arroganza, la prosopopea, la smodata auto - stima dei dirigenti del Botteghino. Forse, dopo l'esplosione del bubbone Unipol, Piero e Massimo non si rivolgeranno più al loro elettorato, considerandolo la «parte migliore del Paese». Ma dovrà passare ancora molto tempo prima che i capi post-comunisti si decidano a spedire in archivio la pretesa di guardare dall'alto in basso alleati e avversari, in virtù di un primato, prima genetico che politico, che tuttavia, ormai, esiste solo nella loro mente. E in quella di attempati maîtres à penser, in primis Eugenio Scalfari, che ha squalificato a vita, in tv, il bossiano Castelli, definendolo come «personaggio-limite» del teatrino politico. E proprio l'insulto, rivolto al ministro dal fondatore di Repubblica - che Rutelli, manifestando flair play e civiltà, avrebbe dovuto respingere al mittente - dimostra le corresponsabilità di certi santoni della stampa progressista nel «complesso dei migliori», sviluppatosi in larghi settori della sinistra più politically correct. Tranne Pansa, Parlato e Macaluso, che hanno conservato la loro autonomia e libertà di critica, nel corso degli ultimi decenni, si sono levate solo voci apologetiche, sulla stampa vicina alla sinistra, dei Veltroni e dei D'Alema, mettendo il silenziatore sui tanti errori, politici e d'immagine, commessi dai due «Occhetto-boys». E abbiamo dovuto sorbirci persino imbarazzanti resoconti sulle traversate in mare di Massimo a bordo della mega-barca Ikarus e sull'amicizia di Walter con la nipote del presidente Kennedy.

Solo oggi, a buoi scappati e a tesoroni dell'ex premiata ditta Consorte-Sacchetti scoperti, da impeccabile profeta del giorno dopo, Scalfari indirizza qualche frecciatina a Fassino per non aver troncato, 8 mesi fa, i rapporti con l'allora già chiacchierato presidente di Unipol. Troppo tardi, purtroppo, don Eugenio!

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