I "volontari" che girano in Bentley e lasciano gli invalidi in carrozzella

Un’associazione clona il nome di una più famosa e chiede soldi via telefono. Congelati 16 milioni di euro del "5xmille"

I "volontari" che girano in Bentley  
e lasciano gli invalidi in carrozzella

I disabili erano l’ultimo problema. Per loro bastavano poche gocce di sudore: ogni tanto qualche malato veniva caricato in macchina e accompagnato all’ospedale. In realtà, l’A.N.I.C.A., acronimo per «Associazione nazionale invalidi civili e anziani», era una macchina mangiasoldi. La frontiera del piccolo impero era l’agguerrito call center: anzi la rete dei call center aperti come si trattasse di una catena commerciale. I telefonisti erano gli alfieri della pietà; contattavano migliaia di italiani, promettevano aiuto a uomini e donne sofferenti, coprivano con una patina di sensibilità le martellanti richieste in euro, raccontavano la loro edificante esperienza di volontari per il bene delle persone più sfortunate.
L’A.N.I.C.A vantava i numeri di un colosso: 12 call center in quattro regioni e la bellezza di 488 volontari, in realtà lavoratori in nero pagati a provvigione. Con sedi a Genova, Savona, La Spezia, Sanremo, Pisa, Lucca, Massa, Cuneo, Alessandria, Reggio Emilia.
La onlus, secondo le indagini condotte dal gruppo delle Fiamme gialle della Spezia, era tutto fuorché un ente non profit: era guidata con spirito imprenditoriale, contrario allo statuto che vietava i profitti, macinava utili con cui venivano pagati i falsi volontari, forniva pochissimi servizi. Insomma truffava allegramente gli incolpevoli benefattori che magari, commossi dalle parole strappalacrime, staccavano un assegno o allungavano una banconota da dieci euro.
In questi casi diventa difficile stimare l’ammontare del tesoro messo da parte in anni e anni di spericolate e spregiudicate attività ma qualcosa si riesce a intuire andando a vedere il parco auto del boss della società: Marco Ferraioli, agli occhi del fisco un nullatenente o poco più. Ferraioli girava, manco fosse uno sceicco, a bordo di Bentley, Lotus, Cadillac, Land Rover. Una parata di marchi scintillanti e lussuosi. Macchine che, per allontanare eventuali sospetti, erano intestate anche ai suoi familiari.
Quanto ha incassato l’A.N.I.C.A.? Fare beneficenza è una nobile attività, ma gli italiani dovrebbero stare più attenti e controllare fino all’ultimo centesimo come vengono impiegati i denari donati per aiutare il prossimo in difficoltà. Ferraioli aveva trovato il modo di confondere le idee alle tante persone di buona volontà agganciate col telefono: la denominazione A.N.I.C.A. infatti era molto simile a quella dell’Anmic, «Associazione nazionale mutilati invalidi civili», che per legge ha il compito di tutelare gli invalidi civili.
La confusione faceva il gioco di Ferraioli e dell’esercito dei suoi scaltri collaboratori. Probabilmente, molti in quel polverone di sigle equivocavano, sentivano quel treno di parole dolorose e insieme rassicuranti - «mutilati» «invalidi» «civili» - e aprivano il portafogli. I centralinisti poi erano maestri del lavoro flessibile, o, se si preferisce, double face: all’occorrenza si trasformavano anche in fattorini e correvano a ritirare le somme offerte, esattamente come facevano i corrieri di Wanna Marchi ai tempi in cui migliaia di italiani credevano alle sue capacità taumaturgiche. E a Reggio Emilia un centralinista particolarmente svelto, sulla carta e solo sulla carta un volontario, era diventato capo area. Era proprio lui a organizzare col contagocce qualche breve viaggio della solidarietà: l’invalido di turno veniva scortato dal medico o da un parente per un saluto. E queste rare esibizioni venivano sbandierate per far credere che tutto filasse per il verso giusto, nel segno del rispetto e dell’attenzione per gli individui più svantaggiati.
La falsa onlus che aveva clonato e storpiato il nome dell’Anmic e avrebbe carpito la buonafede degli italiani almeno dal 2002. Dunque, avrebbe movimentato un reddito di almeno un milione di euro mai dichiarato al fisco. Ma le cifre in gioco sarebbero di gran lunga più alte. Il problema è che i meccanismi della beneficenza sono quelli che tutti conosciamo: c’è chi dà gli spiccioli, chi stacca un assegno, chi versa i soldi in un salvadanaio sull’onda di un’emozione o di un sussulto della coscienza. È quindi difficilissimo, quasi impossibile stimare con precisione questi flussi, dispersi in mille rivoli. Probabilmente, i soldi sono molti, molti di più.
L’inchiesta è ancora in pieno svolgimento, Ferraioli si è difeso con le unghie proclamando via internet la propria correttezza, l’Agenzia per le entrate ha cancellato l’A.N.IC.A. dall’elenco delle onlus. Ma il problema di fondo resta intatto: in questo momento l’Agenzia per le onlus ha poteri quasi inesistenti e i controlli arrivano dopo, quando lo scandalo è già esploso. Insomma, chiunque con un po’ di scaltrezza può presentarsi al mondo come un angelo della solidarietà e riverniciare la propria associazione con i colori radiosi di una onlus. Anche se in realtà si dedica a fare profitti come un qualsiasi businessman. Fra l’altro, senza dover scomodare il codice penale e il reato di truffa, si deve sottolineare che oggi mancano ancora i paletti fondamentali: non c’è una norma che imponga la destinazione finale delle donazioni incassate. Un buco legislativo che dovrebbe essere colmato.


Come dimostra l’inchiesta del Giornale, ci sono onlus che spendono il 70-80 per cento di quel che ricevono proprio per lo scopo previsto dallo statuto. Al servizio dei più deboli. Altre si fermano prima. Sulla soglia del 50 per cento. E anche più in basso.

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