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Iaquinta, Perrotta, Gattuso: come soffia il vento di Calabria

Per il bomber festa in convento a Cutro. Il romanista sogna un ruolo fisso. Ringhio al lavoro per tornare con i cechi E in ritiro arriva il dolce in loro onore

Marcello Di Dio

nostro inviato a Duisburg

In principio (fine anni ’70, ct era il povero «Uccio» Valcareggi) fu Franco Rizzo, conosciuto più dai tifosi della Fiorentina che da quelli azzurri perché uno dei vincitori dello scudetto con Pesaola. Negli ultimi anni sono arrivati Stefano Fiore, che segnò due reti nell’europeo del 2000 con Dino Zoff in panchina, fino ai difensori Iuliano e Pancaro nell’era trapattoniana. Oggi la colonia calabrese in azzurro è la più corposa: Iaquinta, Perrotta e Gattuso sono tutti potenziali titolari. Ma in barba a chi vorrebbe un’Italia subito a casa per quanto sta avvenendo nel nostro calcio, i paladini calabri hanno scritto la prima pagina importante a Germania 2006. E chi li ospita, un calabrese come loro (Antonio Pelle, il proprietario del Landhaus Milser, quartier generale degli azzurri a Duisburg) la sera dopo la partita con il Ghana ha preparato un dolce in loro onore.
L’urlo di Vincenzo Iaquinta dopo il primo gol in azzurro sembrava quello di Tardelli 24 anni fa. «Magari finisse in quel modo...», ha sussurrato ieri l’attaccante nato a Crotone, ma solo perché a Cutro (Kr), il paesino dei suoi genitori, non c’era l’ospedale. E proprio a Cutro, lunedì sera, il coro «Iaquinta-Iaquinta» si è alzato persino dalla sala del convento del Santissimo Crocifisso, dove don Papaleo, amico di Vincenzo, ha installato un maxischermo. Il bomber dell’Udinese, la sua carriera, l’ha costruita prima a Reggiolo, paese nell’emiliano dove papà Giuseppe lo portò pochi mesi dopo la nascita, poi a Castel di Sangro e infine in Friuli. Dunque lontano dalle coste ioniche. Ma lì è pronto a tornare, possibilmente dopo il 9 luglio, per festeggiare un traguardo storico. «Sogno una grande festa insieme a tutti i miei parenti, ho una famiglia grande e unita». Dalla moglie Arianna ai figli Edoardo e Giuseppe, che si chiama come il padre secondo tradizione meridionale. «Quando ha segnato ho sentito il sangue ribollire, è stata una gioia indescrivibile, quasi da infarto», dice il papà di Iaquinta, che è rientrato a casa dopo il raid ad Hannover.
La stagione di Vincenzo era partita alla grande con la tripletta in Champions, poi i dissapori con l’Udinese e la mancata convocazione per quasi un mese, fino all’infortunio all’alluce. Il tormentato recupero e il finale in crescendo. Anche se prima ha dovuto ingoiare il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulle scommesse. «Sono stato messo in mezzo, i miei avvocati sono già al lavoro».
Dalla piacevole sorpresa Iaquinta alla «scoperta» - si fa per dire - Simone Perrotta. Di calabrese ha il sangue, i suoi sono di Cerisano (Cs), anche se è nato ad Ashton, a due passi da Manchester. «Ma solo perché mio padre aveva aperto un pub lì», confessa il centrocampista. A fine febbraio, mentre volava con la Roma, aspettava di tornare in azzurro dopo quindici mesi. Oggi è titolare, fra gli elogi. «Il nostro segreto? Siamo un gruppo unito, dopo la partita a cena ridevamo tutti, anche chi non aveva giocato. In Portogallo non accadeva». Già, perché lui fece parte anche di quella spedizione disgraziata. Nella quale riuscì anche a segnare un gol. Cose passate, il presente è roseo anche se Perrotta sogna una posizione fissa in campo. «Da centrocampista centrale sono diventato esterno a destra e a sinistra e ora anche trequartista. Almeno adesso ho più visibilità e faccio più gol». Quelli che firmava prima che il servizio militare rallentasse la sua carriera: i 600 chilometri di distanza della caserma da Torino ostacolarono la sua permanenza alla Juventus. La nuova esplosione arriva al Chievo. Ma il mondiale gli fa respirare l’aria di Calabria grazie a Iaquinta e a Gattuso. «È stata soprattutto la serata di Vincenzo, ma ora che mi ci fate pensare c’è un bel clan di calabresi. Era tanti anni che non accadeva».
Gennaro Gattuso, originario di Corigliano Calabro (Cs), si sente un po’ meno solo. Un infortunio dopo l’amichevole con l’Ucraina lo ha però messo fuori, almeno fino alla Repubblica Ceca. Per ora passa le ore in palestra e davanti ai macchinari radiografici. «Con cautela, ma andiamo avanti», ha detto il professore Castellacci. «Ringhio», intanto, lavora con sacrificio e applaude le prove dei suoi conterranei.

Perché essere calabresi è quasi una religione.

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