Ibra, un guerriero snob al cinema della vita

Che meraviglia quel Rocky! Rocky Balboa? Macché! Rocky Graziano: quello vero. Ovvero «lassù qualcuno mi ama», interpretazione da cinema. E da cinema della vita. Ibra è Rocky, quel Rocky: vero, rude, essenziale, devastante, trascinante, irritante, sfacciato, gaglioffo, talentuoso. Vincente a modo suo. Picchia tu che picchio anch’io. E non sono scene da film. Lassù, ma anche quaggiù, qualcuno lo ama. Rocky! Non sentite come il suono si confonde con Ibra? Combattente da strada. Ibrahimovic ama il pugilato, ci starebbe a suo agio, se non combinasse sfracelli con il pallone fra i piedi.
Ibra è un misto fra il ragazzino brasiliano delle favelas, palla e strada, e il moccioso di Brooklyn pronto a mulinar colpi. Suo papà gli ha raccontato di Ingemar Joahnsson, uno che non c’entrava nulla con il suo modo di combattere. Quel lungone che se la fece con Floyd Pattersson era un bianco pallido del ring. Ibra è un nero dei guantoni: fighter. Di pelle bianca come un Rocky, che sia Marciano o Graziano. O negro (sì, proprio negro con tanto di inchino alla negritudine), che sia Frazier oppure Tyson. Anche se quest’anno la moglie e il suo staff gli hanno fatto lezione di bon ton. Hanno cercato di risvegliare in lui l’animo gentile del cattivo da ghetto. Ma poi....
Quale bon ton, quando serve strapparsi la camicia, urlare come un tarzan, mostrare i muscoli come Rocky e menare, picchiare, farsi picchiare, vediamocela faccia a faccia. Brividi e sangue che corre, c’è un pallone ma quello è solo un arnese, un mezzo, un’occasione. Ibra è così: si prende per il collo con un armadione americano ed obbliga Galliani ad andare in Tv a parlare, spiegare, raccontare per evitare che vengano trasmesse le immagini dell’orrida ammucchiata di muscoli e rabbia. Mostra il suo affetto prendendo a calcetti e pugnetti l’ultima recluta o il compagno di panca. Si mangia a furor di occhiatacce qualunque compagno non gli passi la palla. Terrorizza Pato, ma ne soffre la presenza. Dice allo Staffelli, quel poveretto di Striscia la notizia, scaraventato lontano dalla sua guardia del corpo: «Lo pago per questo». E mostra il ghigno malefico che sembra il sorriso sdentato di Tyson.
Eppure questo è l’identikit del più insopprimibile vincitore di scudetti, il Tex Willer dei titoli: oggi sono nove, sette di fila. Riepiloghiamo: 2001-2002 con l’Ajax, 2003-2004 ancora Ajax, due con la Juve (2004-2005, revocato, e 2005-2006 poi assegnato dalla Figc all’Inter), tre con l’Inter (2006-2007,2007-2008,2008-2009), uno con il Barcellona (2009-2010) e questo con il Milan. Spara e acchiappa, serve gol, assist e conquiste, il bello del pallone. Il combattente calcia dolce, il piedone diventa raffinato quando il talento riesce a prendere il sopravvento. Picchia, allunga una mano, la scarpa scalcia, la faccia sbuffa, insulta l’arbitro, il viso sogghigna, quell’elastico da capo Sioux lo rende più cattivo, quando prende sopravvento l’indole da Rocky. Solo uno così, Rocky dentro e fuori, poteva entrare nello spogliatoio del Milan e dire: «Ragazzi, io sono qui per vincere! E voi?». Eppoi immergersi nell’onda in piena di San Siro e ripetere: «Ragazzi io sono venuto qui per vincere!». Ed ha vinto. Come sempre. Non è un caso che sia il giocatore meglio stipendiato dell’intero campionato (9 milioni), ma quand’era all’Inter (12 milioni) era il meglio pagato del mondo. Non è un caso se le società che lo vendono si sentano più ricche: il Barcellona ha messo in conto 24 milioni. All’Inter fruttò una plusvalenza di 53,6 milioni di euro.
Eccolo di nuovo che ci fa ciao. Lo scudetto ce l’ho qui. Batte il petto che conosce perfettamente dove sta cucito, sono otto anni che non sbaglia il percorso. Lo insultano perché non ci prende mai in Europa, sbaglia reti, scompare dal palcoscenico come un ragazzino intimidito. Quest’anno ne ha sofferto: via lui, l’Inter vince la Champions. Via lui e il Barcellona va in finale. Arriva al Milan e quelli sbarellano contro il Tottenham, neppure avessero visto il Manchester. C’è qualcosa che inceppa la colt, una nube nera passa sul suo destino calcistico. Perso il filone Champions, Ibra si è insabbiato, la testa è andata fuori giri, sono volate espulsioni e squalifiche. Non è un caso. Lo ripagherà l’adorazione per il signore degli scudetti?
Lo adorano, ma alle volte non fa neppure in tempo a trovare ago e filo per cucirsi la conquista: ha già mollato la maglia. Si, questa è la grandezza di un ragazzo da strada, che racchiude lo snobismo di un principe. Ibra un principe? Orribile, direbbe la damigella del bon ton! Senza trascurare di sbirciargli i bicipiti e chissà cosa d’altro. Un po’ come fanno i cultori del pallone: possono dirgli di tutto, ma poi lo rimpiangono e se lo sbirciano mentre gioca nel giardino degli altri.
Ibra Principe degli sfacciati, degli avventurieri, dei pirati. Ibra è Principe. E con lui c’è sempre un principio. Non è un gioco di parole: è vita, conquista, gol, scudetti. Con quale animo un conquistatore può rivedersi allo specchio per rimirare la conquista? Sarebbe perdere tempo. No, peggio, il segnale che non sa più fuggire dal tempo. Ibrahimovic fugge dal tempo e dalle squadre: è il segreto di un vincente, la giovinezza di un insofferente. Ibra corre nel tempo, acchiappa l’aria e lo spazio, vuol essere più veloce dell’ora che passa. Ci sarà un giorno che sentirà l’aria fermarsi, il tempo rallentare, il suo fisicaccio gridare al vento: non ce la faccio più. Come quando è in campo: stremato dal correre e dalla fatica anche mentale. Vuol sempre vincere, fare meglio, guidare l’assalto, aver spazio libero nel quale lanciare le sue voglie. Determinazione e cattiveria sono benzina. Per tutto il girone d’andata Ibrahimovic sembrava indistruttibile, imprendibile, inarrivabile per qualunque difensore provasse a mettergli davanti il petto. Sfondava tutti e regolarmente apriva la porta al Milan. Come dire: prego accomodatevi, anche questa è fatta. Poi lo abbiamo visto disfatto dalla stanchezza, quasi rimpicciolito nel fisico e rannicchiato in se stesso. Correva e metteva la testa giù, come non volesse guardare lo spazio e il tempo davanti a lui. Una manatina stupida, non pesante, gli ha risolto un problema che Allegri non ha saputo comprendere.

Quello di farlo riposare nonostante il suo: non ci sto! Poi una parlata volgare lo ha incastrato come fosse un Totti qualunque. Ma lui ha pagato. Ed è tornato nel giorno del giudizio. Il segno del destino: sfrontato, maleducato, vincente. Il Rocky horror show non poteva che chiudersi così.

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