ICONE POP E MITI INFRANTI

Alberto Asor Rosa? «Dio ce ne scampi» Nanni Balestrini? «Cecchino ideologico» Franco Fortini? «Un marmo funereo»

Alberto Gaffi è un raffinato editore che porta asole distoniche sulle giacche destrutturate. È stato per dieci anni Principe dell’Accademia degli Incolti, fondata nel 1658 da Caterina di Svezia, e per dieci mesi candidato sindaco a Monte Argentario. Ha litigato con quelli di Wu Ming, e questo va bene. Alla domanda se stava con i repubblichini o i partigiani risponde: «Non me lo chiedere». Per chi voti, almeno? «Me rimbalza». Non è di sinistra, sicuro, perciò si diverte a scovare autori che, a differenza degli altezzosi romani vicini di loft di Sabina Guzzanti a San Lorenzo, provano gusto ad autocriticare i vizi di ciò che resta, se non più un collante ideologico, perlomeno un «ambiente».
Così, Gaffi mesi fa aveva affidato al critico Fulvio Abbate, di cui ricordiamo le bastonate ricevute in diretta televisiva da Giampiero Mughini al Tornasole di Andrea Pezzi, il compito di tratteggiare un profilo Sul conformismo di sinistra. Il conformista di sinistra Abbate-style è innamorato pazzo, nell’ordine: di Roberto Benigni; della «proclamazione del comunismo libertario nei pressi dell’Argentario», evidente omaggio all’editore; della torta di carote, dal gusto simile alle attrici che si danno alla macrobiotica già segnalate da Edoardo Sanguineti nel lontano 1977; di Tonino Guerra che è poeta emilianoromagnolo per forza ottimista; del meglio giovane Marco Tullio Giordana, che fa fiction scambiate per saghe generazionali; di Veronica Lario fintantoché la Ieratica di Arcore affida i suoi pensieri a Maria Latella e i suoi sospiri alla sinistra ancora da farsi. E di Donatella Versace, testimonial di una sinistra «aperta al mondo» secondo il verbo di Klaus Davi che odia sporcarsi le manI con le mutande perlate di Dolce&Gabbana.
Lo spregio per D&G, unito al disdegno del «mondo qualunquista delle contumelie calcistiche», è l’unico tratto che lega Abbate a un’altra produzione gaffiana, Sensi vietati di Massimo Onofri. Che, per non sbagliarsi, è un critico pure lui ben corazzato. Ma, essendo di Viterbo, tifando Viterbese e insegnando a Sassari, non ha molta dimestichezza con lo stadio Olimpico, i borborigmi, gli attici e i giochi di potere della metropoli. È in giuria al premio Mondello, ma ce l’ha messo Nino Strano, il fascista che difendeva i gay sulla via Etnea e Cuffaro se l’è messo a fare l’assessore al turismo. Sicché il libro onofriano, che raccoglie in ordine cronologico le puntate di una rubrica settimanale, si spiega come il lavorio di cesello di un faticatore della lettura di una strana sinistra anticontemporanea e crociana, che se la prende con la Moratti ministro non per la riforma dei cicli perché vuole alleggerire il carico degli zaini degli scolari. Il peso della cultura.
A parte le navigazioni nel microcosmo isterico dei critici letterati e gli sfottimenti verso icone nazionalpopolari di destra come Stefano Zecchi, Antonio Socci o Pietrangelo Buttafuoco, il libro infilza nello spiedo di una prosa asciutta qualche mito intoccabile della cultura progressista italiana. Alberto Asor Rosa è un «Dio ce ne scampi». Nanni Balestrini un artigiano del «cecchinaggio ideologico». Franco Fortini, incapace di allontanarsi dal «funereo marmo dell’ideologia». Sabrina Ferilli, «labbra un po’ ebeti, falce martello e forza Roma». La neoavanguardia del Gruppo 63, una straordinaria operazione di «autopromozione culturale» che ha infettato la letteratura italiana sino alle gracilità stilistiche di giovani rampolli delle case editrici come Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa, Aldo Nove o Isabella Santacroce. I cantautori poeti alla De André e i cantautori romanzieri come Vinicio Capossela, Ligabue o Roberto Vecchioni (Francesco Renga ha annunciato da poco il suo libro: meno male, per le coronarie di Onofri), dei mistificatori che offrono l’illusione della poesia, «velocemente alla portata e di facile consumo» per sollazzare l’ego intellettuale degli stessi, e Dio solo sa quanti ce ne sono, «che si sentono aggiornati solo per aver letto tutto Arbasino Tabucchi e Erri De Luca, ed amare con passione irrefrenabile Borges e Pessoa. Ma si sa: le strade del conformismo sono infinite».
Capitolo icone massmediatiche. Chissà cosa penserà Nanni Moretti nel ritrovarsi degradato a sottoprodotto di quel «campione mediatico dell’antipolitica» che risponde al nome di Adriano Celentano. Quel che è peggio, in compagnia di Berlusconi, Bossi e Di Pietro. Tutti telepopulisti. Vade retro tivvù, un critico letterario non è un critico se non critica la televisione: anche quella «intelligente» di Michele Santoro o Giovanni Floris, accostata senza riserve al nullismo dell’«uomo-gente» Maurizio Costanzo, al «vuoto pneumatico» di Gianni Boncompagni o del bidimensionale Mike Bongiorno, che qualcuno vorrebbe senatore a vita ma che per Onofri ha la stessa profondità di uno schermo televisivo ultrapiatto. Dal quale, in un gioco al massacro dove finiscono triturati tutti, da Simona Ventura a Irene Pivetti, da Paolo Bonolis a Francesco Totti «variante patetico-buonista dell’eroe calciatore», si salva solo un inaspettato quartetto di muse: Loredana Lecciso con la sua sana «sfrontatezza» che in fondo non canta e non balla peggio di Romina Power, Platinette assurta con il suo antiumanesimo a simbolo dell’«inautenticità dei nostri tempi», Camilla Parker Bowles con la sfiga attaccata del ranocchio che ha ingoiato la Santa Principessa e ha le gambe storte da calciatore. E Moana, un angelo «che si portava dentro una verità troppo commovente perché potessimo capirla». Certamente non l’ha capita la trendyssima di Lipperatura (il blog di Loredana Lipperini), che se l’è presa per il monumento postumo alla «puttana santa», e anche questo va bene.
Onofri lascia in bocca uno strano retrogusto. Anzi, un retrodisgusto: al pari di altrettanto disgustati eredi della critica militante, non gli va giù la società di massa. Quella che va in vacanza a Porto Cervo, sgalletta a Riccione, apre i pacchi di Pupo, legge i corsivi di Alberoni, Susanna Tamaro e i cannibali, va in processione a Modica per ammirare la magione cinematografica del «commissario più politicamente corretto d’Italia», il Montalbano di Camilleri. Ecco qui un intellettuale antinovecentesco. Che rimpiange un altro nemico del secolo scorso, Alfredo Cattabiani, e affida a una citazione di Vitaliano Brancati la speranza, per così dire, che la bottiglia con i suoi scritti venga raccolta non sull’Isola dei famosi ma dalle mani della vecchia aristocrazia delle lettere e delle lampade a petrolio.

Così il critico di sinistra rinuncia alla pedagogia di massa in favore di una specie di luddismo letterario dei «pochi ma buoni», allergico anche al culto lieve per l’ironia: «sotto la maschera del riso gli italiani hanno saputo accettare ogni servitù».
Evidentemente Onofri, sciasciano di ferro, ride di rado. Sarà perché guarda poco la televisione.

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