E così dopo anni di critiche feroci al governo Berlusconi, il Financial Times scopre i rischi del governo di centro-sinistra di Romano Prodi paventando addirittura tra 9 anni l'uscita dell'Italia dall'euro. Avremmo apprezzato che accanto a questo nuovo allarme ci fossero anche delle scuse per ciò che avevano detto per molto tempo del governo Berlusconi gli editorialisti dell'autorevole giornale inglese. Così purtroppo non è stato e se ieri sbagliavano, oggi esagerano. È fuor di dubbio che la striminzita e discussa vittoria numerica del centro-sinistra è tutto fuorché una vittoria politica ed è altrettanto vero che una coalizione fatta di 8 partiti più altre piccole formazioni avrà difficoltà a governare un Paese complesso come l'Italia che da 10 anni cresce poco e perde in competitività. Di qui, però, a paventare l'uscita dell'Italia dall'euro e, di fatto, la fine dell'Unione europea ce ne corre. L'allarme del Financial Times a guardarlo da vicino sembra più un desiderio che una previsione e si accoppia all'altro allarme lanciato pochi giorni prima delle elezioni dalla Goldman Sachs in ordine all'abbassamento del rating del debito italiano. Questo uno-due sembra in realtà più funzionale a spingere il nuovo governo a fare politiche di dismissioni come quelle fatte negli anni Novanta dallo stesso centro-sinistra che non a mettere sull'avviso i governanti italiani. Goldman Sachs e Financial Times sono entrambi espressioni di quella finanza internazionale che dall'inizio degli anni Novanta ha visto nell'Italia non solo un mercato da conquistare ma anche un Paese da colonizzare. In quegli anni, infatti, furono vendute quasi tutte le aziende pubbliche per un valore di 150 miliardi di euro e alla fine del 2001 il debito pubblico era di 6 punti più alto di quello del 1991 nonostante 10 anni di manovre correttive. Ma intanto il Paese, in un silenzio complice diffuso, fu ampiamente colonizzato con l'ingresso di multinazionali straniere in settori strategici come l'energia e il credito o in settori a basso contenuto tecnologico come la grande distribuzione ma strumento formidabile per la conquista del mercato italiano. Naturalmente in assenza di qualunque reciprocità. Ecco perché riteniamo che l'accoppiata Goldman Sachs-Financial Times più che preoccuparsi della sorte dell'Italia spinge il nostro Paese a mettere in vendita, sotto l'incubo dell'insolvenza, la quota del 30% dell'Eni, dell'Enel, dell'intera Finmeccanica e via di questo passo. Complici di questo disegno potrebbero essere la nuova banca d'Italia e pezzi del centro-sinistra. Detto ciò, però, non è che i problemi non esistano. Tutt'altro. Le politiche economiche degli ultimi dieci anni hanno affrontato il nodo del risanamento dei conti pubblici con una visione «ragionieristica» tutta impegnata a turare le falle che via via si presentavano dimenticando che senza crescita non ci poteva essere alcun risanamento. Il centro-sinistra nel 96-97 recuperò con la tassa per l'Europa e con il prelievo sul Tfr entrate straordinarie per circa 10 miliardi di euro con le quali ridusse il rapporto deficit/Pil agendo solo sul numeratore (il deficit) e non sul denominatore (il Pil e cioè la crescita). La stessa cosa ha fatto il centro-destra con il condono che recuperò 17 miliardi di euro pagati da chi aveva evaso le tasse alcuni anni prima. Entrambe le coalizioni dimenticarono di finanziare lo sviluppo per cui l'Italia nel quinquennio 96-2001 crebbe dello 0,7% in meno della media della zona euro e nel quinquennio successivo dello 0,5% in meno. E il rapporto deficit/Pil riprese a crescere sin dalla primavera del 1999 sfondando il muro del 3% già nel 2001. Era immaginabile che la crescita del deficit si sarebbe scaricata sul debito facendolo aumentare. E qui sorge la domanda di fondo: cosa fare? Un'azienda che ha voglia di finanziare lo sviluppo senza indebitarsi ed ha, però, un grande patrimonio immobiliare ha dinanzi a sé una strada obbligata e cioè uno spin-off immobiliare recuperando, così, risorse con le quali sostenere ricerca, innovazione e crescita del proprio fatturato. Un Paese non è diverso da una grande azienda. L'Italia ha un notevole patrimonio immobiliare, un grande debito ed una fame di risorse per finanziare lo sviluppo attraverso il recupero di quella competitività del nostro sistema industriale che dal 1995 ha iniziato il proprio declino. E quindi hanno ragione Guarino e Tremonti nel lanciare la proposta che da anni da queste colonne abbiamo inutilmente sponsorizzato e cioè una depatrimonializzazione dello Stato. Chi vuole dare una scossa all'economia italiana per farla riprendere a crescere ha bisogno di reperire in tempi rapidissimi 35-40 miliardi di euro con i quali finanziare il recupero a breve della competitività (riduzione del cuneo fiscale voluto da entrambe le coalizioni) e quello a medio periodo (ricerca e innovazione). Queste risorse non possono essere prese dal bilancio dello Stato e l'unica strada percorribile è un massiccio spin-off di immobili appetibili dal mercato. Per dirla in breve, la vendita di 100 palazzi di centomila mq ciascuno (o 50 da duecentomila mq) utilizzati dalla pubblica amministrazione e quindi già messi a reddito, darebbe quel gettito necessario per fare ripartire l'economia italiana senza ulteriori aggravi sul bilancio dello Stato e senza vendere aziende pubbliche presenti in settori strategici che garantiscono al Paese ancora un certo protagonismo nel riassetto del capitalismo europeo. È inutile dire che va messa sotto controllo la spesa primaria aumentata in tutti e due gli ultimi quinquenni responsabilizzando su questo terreno chi come Regioni, Comuni e Province, gestisce oltre il 60% della spesa corrente pubblica.
Per fare tutto questo, però, non possono essere al governo i rappresentanti solo di una metà degli italiani, come invece sembra voler fare il centro-sinistra. All'allarme inglese, infatti, si risponde con la ricetta tedesca e non con la svendita del Paese.ilgeronimo@tiscali.it
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