Politica

Illusione bipolare

Questa volta Giovanni Sartori nel suo editoriale sul Corriere della Sera di giovedì scorso dice molte cose giuste, anche se qualcuna di esse va leggermente corretta. Ma andiamo con ordine. In una coraggiosa valutazione del voto, Sartori dice che Prodi e Berlusconi hanno vinto entrambi o, se si guarda il bicchiere mezzo vuoto, hanno perso entrambi. Il primo avrebbe avuto 25mila voti in più, mentre il secondo avrebbe recuperato in pochi mesi 5 punti di svantaggio. Se invece si volesse dire che hanno perso entrambi, si dovrebbe ricordare che nessuna delle coalizioni alla Camera ha preso il 50,1 per cento dei consensi. Tutto questo è vero, con due piccole aggiunte. La prima è che al Senato la Casa delle libertà ha superato il 50 per cento (per l’esattezza il 50,2 per cento), la seconda è che Prodi sarà l’unico presidente del Consiglio in Europa che non è il capo né del maggiore partito, né di un partito «tout court». Con tutto il rispetto per il popolo delle primarie, la sua mobilitazione fu dovuta prevalentemente all’impegno dei partiti, molti dei quali candidarono addirittura, per onor di firma, il proprio segretario. In Europa, al contrario, Blair, Zapatero, Merkel sono primi ministri perché segretari del partito di maggioranza relativa nel Paese. Questa è una differenza non di poco conto e che va messa un momento da parte per ciò che diremo alla fine riempiendo un silenzio di Sartori. Con un’operazione un po’ bislacca Sartori, poi, mette sulle spalle del solo Berlusconi lo scontro frontale della battaglia elettorale che ha così spazzato via qualunque ipotesi di dialogo. Sartori sa, e con lui lo sanno bene anche gli elettori del centrodestra e del centrosinistra, che in questi cinque ultimi anni l’antiberlusconismo è cresciuto a dismisura fino a diventare il primo cemento della coalizione vincente, mettendo così in campo gli stessi difetti del berlusconismo coltivato dall’altro lato della barricata. Ad esser buoni, dunque, c’è una responsabilità comune, anche se questa è meno comprensibile in chi, come Prodi, non è il segretario di un partito. Sartori, infine, ricorda che «dopotutto siamo ancora in una democrazia parlamentare». E qui vogliamo sottolineare un errore antico di Sartori e di altri politologi italiani che hanno da tempo creato nel Paese l’illusione ottica di un bipolarismo, ritenendolo lo strumento e la garanzia dell’alternanza al governo. Errore gravissimo dal quale nascono, purtroppo, tutti i nostri guai. Vorremmo dire all’ottimo Sartori, inoltre, che a noi piacerebbe sostituire quel suo «dopotutto» con «innanzitutto» e non per una purezza linguistica. Molti, infatti, dal 1992 in poi, hanno dimenticato questa banale ma fondamentale verità, e cioè che l’Italia è una democrazia parlamentare. In una democrazia parlamentare le alleanze politiche si fanno e si disfano in Parlamento, sapendo che ogni partito darà conto, poi, dei propri comportamenti al suo elettorato. Così accade in tutte le democrazie parlamentari del mondo nelle quali la piazza non vota una coalizione di partito, ma vota i singoli partiti, o con il sistema proporzionale, o, quando vi sono due partiti come nelle società anglosassoni che sono da oltre 200 anni bipartitiche, col sistema uninominale maggioritario. È nel Parlamento che si costruiscono, poi, le alleanze e i casi della Germania e di Israele sono lì a testimoniare l’importanza democratica che hanno le assemblee parlamentari. Gerhard Schröder e Angela Merkel si sono combattuti senza esclusione di colpi, ma la mancata vittoria definitiva di uno dei due li ha costretti a fare la Grande Alleanza, ritenendola ciascuno giustamente una fase politica transitoria nell’interesse della Germania. La stessa cosa è accaduta in Israele, il cui Parlamento ha benedetto l’alleanza tra Ariel Sharon e Simon Peres alla guida di due partiti alternativi tra loro, innescando, così, il processo di pace con il ritiro dei coloni di Gaza. Solo nei sistemi presidenziali e in quelli di stampo peronista si rinuncia alla mediazione del Parlamento, dando alla piazza l’onere di determinare le alleanze e la vittoria di una delle due coalizioni. Tutto questo determina tre cose: a) ciascuna coalizione fa salire sul proprio carro di tutto e di più; b) si dà una forte spinta al populismo; c) si rende rigido e statico il confronto in Parlamento. E l’aspetto tragicomico, alla fine, è che così facendo si spazzano via le prerogative del capo dello Stato perché è la piazza che ha già designato il primo ministro e si approva, sempre nella piazza, un programma, che dovrebbe essere invece il frutto del dibattito tra governo e Parlamento, snaturando, così, la funzione democratica di quest’ultimo. Ecco dove si collocano i silenzi di Sartori che, data la sua autorevolezza, non possono essere semplici dimenticanze. Detto ciò, però, va salutato con gioia chi come Sartori riscopre «dopotutto» il Parlamento e la sua funzione. Compito dei maggiori leader politici sarebbe ora quello di metter mano al riassetto dell’intera politica italiana, istituzioni comprese, che ancora oggi non registra, diversamente dai maggiori Paesi europei, un partito di massa al di sopra del 35-38 per cento (l’Ulivo è una lista unitaria e non un partito e si ferma peraltro al 31,5 per cento). Tutti i leader dovrebbero ricordare, infine, che una cosa è avere una maggioranza in Parlamento grazie a premi di vario tipo, altra cosa è rappresentare la maggioranza degli italiani. Volgiamo tutti con umiltà per un solo momento lo sguardo agli ultimi dieci anni e vedremo così che tutte le maggioranze parlamentari che hanno governato, in realtà erano una minoranza, ancorché altissima, del Paese.

Sarebbe davvero ora di voltar pagina.
Geronimo

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