«Un’illusione voler cambiare il regime»

«Cosa v’aspettavate, v’illudevate che Obama cambiasse anche il regime di Teheran? Il no di Alì Khamenei, il no al dialogo, è una reazione scontata, non m’aspettavo nulla di diverso. La natura del khomeinismo non può cambiare. A Teheran regna da 30 anni un sistema oppressivo. È lo stesso che appoggia Hezbollah in Libano e il terrorismo in Palestina, per cambiarlo non basta parlargli sottovoce».
Dal lato canadese della cornetta la voce di Marina Nemat, autrice di “Prigioniera a Teheran”, un libro tradotto in 13 lingue sugli orrori delle galere khomeiniste, risuona sdegnata, sorpresa per il candore di chi le chiede se s’aspettava l’inflessibile risposta di Khamenei. «Di recente ero in Italia, invitata dalla casa editrice Spirali, per raccontare la mia storia di ragazzina cristiana che credeva a Khomeini - spiega Marina Nemat al Giornale -. Nel 1982, a 16 anni, sono stata sbattuta in galera e condannata a morte per aver criticato il regime, mi sono salvata e sono fuggita in Canada, ma in Iran non è cambiato nulla»
E allora che senso hanno i toni accomodanti di Obama?
«È politica, solo politica. Lui vuole apparire diverso dal suo predecessore e sicuramente lo è, ma questo non risolve i problemi iraniani. Non cambierà nulla neppure se andrà in Iran a parlare ai capi del regime. Loro gli chiederebbero la fine dell’appoggio a Israele e Obama non potrebbe certo acconsentire. Detto questo, una politica meno conflittuale può avere dei lati positivi. Se l’America smette di considerare l’Iran l’asse del male e non minaccia di bombardarlo ad ogni pie’ sospinto, magari l’opposizione riacquista fiducia e guarda agli Stati Uniti come qualcuno in grado di aiutarli».
Perché l’opposizione non credeva a Bush?
«Il nostro è un popolo nazionalista, non sopporta le minacce, l’idea che l’America potesse bombardare il nostro Paese non ha sicuramente giovato. Un eventuale attacco renderebbe ancora più forte Teheran e l’intero Paese si stringerebbe intorno al regime, come ai tempi della guerra con Saddam».
Ma in Iran c’è un’opposizione?
«Negli anni ’80 Khomeini ha ucciso 50mila oppositori, chi è uscito vivo dalle galere non dimentica che protestare significa rischiare la vita. Gli studenti universitari l’hanno scoperto a loro spese scendendo in piazza. Questo non significa che non esista l’opposizione, è soltanto impaurita e divisa, ma se gli Stati Uniti ne sapranno conquistare la fiducia sarà facile unificarla usando strumenti di comunicazione come internet e la televisione satellitare. Per conquistare il cuore del mio popolo basterà dimenticare i toni ideologici e favorire la nascita di un movimento nazionalista e libertario».
A giugno gli iraniani scelgono un nuovo presidente, cambierà qualcosa?
«Il vero cambiamento è lontano. Chiunque venga eletto è parte di quel regime. Ai tempi del presidente Khatami, definito da tutti riformista, è morta torturata in carcere una giornalista iraniana canadese. Certo Khatami è una brava persona: con lui si leggevano più libri, le donne mettevano il rossetto e andavano in giro un po’ meno infagottate, ma era pura cosmesi perché l’essenza del regime era la stessa. Se a giugno eleggeranno il candidato riformista Mir-Hossein Moussavi la storia non cambierà. Fino a quando l’Iran sarà governato dalla sharia, la legge islamica, nulla cambierà».
Si può fermare la corsa al nucleare del regime?
«Forse no, ma attaccare le installazioni nucleari iraniane sarebbe peggio. Un eventuale conflitto sarebbe molto più difficile di quello iracheno perché gli iraniani si schiererebbero con il regime. Per me la bomba atomica non cambia i termini del problema, anche il Pakistan e l’India la possiedono, ma si guardano bene all’usarla perché il rischio è reciproco. Lo stesso varrà per l’Iran».


Potendo parlare a Obama, cosa gli suggerirebbe?
«Alla fine gli direi di fare quanto sta facendo. L’America deve guadagnar tempo, abbassare i toni e favorire la nascita di un’opposizione. Un eventuale negoziato non porterà, probabilmente, a nessun cambiamento fondamentale, ma aiuterà forse a impedire la guerra».

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