Di fronte alla perdita di coscienza del sé, il paesaggio si spalanca.
In tutto siamo quarantuno, se si contano anche i sei accompagnatori. Vicino a me ci sono un attore della Florida che ora vive a Los Angeles, uno studente di medicina e sua moglie, un ispettore della Motorizzazione della Virginia, il proprietario di un negozio di merce biologica di Chicago e un redattore di New York, che è venuto con il figlio.
Una simile varietà è la norma in gruppi che intraprendono questo genere di attività: trekking sull'Himalaya, immersioni nel Mare di Cortez, birdwatching nell'Artico. Gli obiettivi di questo viaggio in particolare sono due: navigare sul fiume Colorado e partecipare al workshop musicale del jazzista Paul Winter, che per primo ha lanciato l'idea della gita.
Winter è un innovatore e una persona che sa ascoltare. Erano anni che sognava di venire qui a creare una musica che dialogasse con questo paesaggio di lucertole dal collare e opunzie, di rovine anasazi e calura soffocante. Ma soprattutto una musica che fosse un'emanazione del fiume e delle pareti di roccia che svettano dalle sue rive: l'Arenaria di Coconino che poggia sull'Argillite di Hermit, che a sua volta poggia sulla formazione del Gruppo del Supai, la roccia nuda, esposta alla luce del sole, un'esplosione di fotoni che sprigiona nell'aria un tripudio di colore giallo zafferano e ocra, rosa albicocca, rosso di robbia, verde perlaceo e grigio verde, rame, ambra e terracotta.
Winter è qui alla ricerca dell'integrazione fra musica, paesaggio ed essere umano. Una risonanza. Durante il viaggio la trova tre o quattro volte per prolungati lassi di tempo: scivolando sul placido nastro d'acqua dopo aver superato le Bass Rapids insieme all'oboista Nancy Rumbel e al violoncellista David Darling; in un anfiteatro naturale all'altezza del Calcare di Muav, nel Matkatameba Canyon; in una notte di luna piena col suonatore di eufonio Larry Roark, nel Blacktrail Canyon.
Il suo entusiasmo e la sua passione, le sue arie per strumenti solisti o ensemble, s'insinuano nel nostro viaggio come poderosi venti, come le limpide e gravi note fischiate dallo scricciolo dei canyon, e udiamo i suoi glissati, vicini o lontani, ogni qualvolta ci fermiamo ad ascoltare.
Ma come le rondini e i rondoni che ogni tanto calano a picchiettare la superficie del fiume davanti ai nostri gommoni, anche noi arriviamo e passiamo, persi nelle nostre riflessioni private.
Il secondo giorno facciamo una sosta alla Redwall Cavern, un'ampia nicchia nella roccia che ospita una spiaggia di sabbia fine lunga circa centocinquanta metri e profonda quarantacinque.
Winter vorrebbe registrare qui, ma la sabbia assorbe il suono. Imperturbati, gli altri giocano a frisbee, fanno Tai-chi e jogging, meditano, suonano il flauto dolce e leggono romanzi.
Solo l'uomo, di tutti gli animali, è capace di mettere in piedi così tante attività, afferenti a culture e sfere sociali diverse, con così tanta energia e in così poco tempo in un contesto che gli è nuovo. E non esiste altra creatura disposta a condividere un'esperienza aliena come questa discesa in gommone con soggetti altrettanto alieni. In una tale energia e diversità si scorge la scintilla dell'evoluzione umana e dell'umano desiderio di autentica avventura. Non siamo i primi a scendere giù per questo fiume, ma c'è esplorazione in quelle mani che giocano con l'acqua a riva, nelle note cignesche di un oboe, negli occasionali abbracci che si scambiano i più spaventati dalle rapide.
Ogni giorno vediamo o udiamo qualcosa che ci lascia senza parole: le millenarie rovine di un ponte anasazi sospeso nel crepuscolo tra le pareti del canyon sopra la Harding Rapid; le cascate di Deer Creek, dove ci ritroviamo immersi fino alle ginocchia nell'acqua turchese sotto un grande arcobaleno; l'Havasu Canyon, straripante di viti, pioppi e ceneri di velluto, di Rhinichthys osculus e cervi mulo, erbe selvatiche e mimoli cardinali. Ogni sera ci godiamo il vespro intonato dalle cicale e dai grilli, dalle tortore e dai pigliamosche vermigli; e il vento, che fa tintinnare i sonagli appesi ai rami delle tamerici. Queste note beccheggiano sopra il ruggito dell'acqua, armonizzano con il rombo delle rapide. Il regno angusto, umido e recondito dei canyon minori, cosparsi di frammenti di vasellame indiano e tracce fantasma di molluschi cefalopodi risalenti a quattrocento milioni di anni fa, si spalanca verso quello più vasto del fiume Colorado; ma nulla suggerisce quanto in profondità ci siamo spinti nelle viscere della Terra. Di tanto in tanto scorgiamo il South Rim, il confine meridionale del Grand Canyon, milleduecento, millecinquecento metri sopra di noi. Da quelle altezze il canyon assume dimensioni oceaniche; dalla superficie del fiume se ne ha un'impressione più intima. Chi ci osservasse col binocolo da lassù ci vedrebbe lontanissimi. È proprio questa continua ricalibrazione del senso del tempo e dello spazio, insieme alla perpetua domanda che il canyon pone Cosa conta davvero? (nella vita, nella nostra vita di esseri umani, nella vita del pianeta) a riverberarsi senza sosta, e a sfidare l'umana predisposizione al giudizio (dell'altro, dell'altrui pensiero).
Qui si assiste al fluire di due tempi: il nostro, mentre sediamo sulle sponde di un bacino riscaldato dal sole, a guardare libellule azzurre e rospi neri, e quello delle rapide che corrono verso una fossa cavernosa sulla lingua liscia come vetro del fiume, e s'impennano in un muro d'acqua alto tre metri che subito crolla in un ribollire di fameliche correnti, gorghi risucchianti, grida soffocate, sussulti del cuore che per un attimo sospende il suo battito. È sufficiente imboccarle dall'angolazione sbagliata, nel punto sbagliato, e le rapide piegano e mandano in pezzi intere imbarcazioni, si prendono delle vite.
Alcune, come quella di Hermit, appaiono più pericolose di quanto effettivamente siano, e ci divertiamo come sull'ottovolante. Altre come quelle di Hance, Crystal, Upset sono meno spettacolari, ma non per questo meno insidiose. Giunti alle Crystal Rapids, il nostro gommone inizia a scricchiolare, a forzare la propria struttura. Il muso si accartoccia; con eccezionale tempismo il nostro barcaiolo all'ultimo secondo vira a destra: per un attimo restiamo in bilico sulla cresta dell'onda, poi ricadiamo sul vaporoso tappeto d'acqua bianca della sua coda, oramai al sicuro. La fiamma si estingue negli occhi del nostro traghettatore.
Le prime rapide Badger Creek e Soap Creek non sono nulla di che.
Quando però entriamo nell'Inner Gorge Granite Falls, Unkar Rapid, Horn Creek Rapid alcuni di noi si aggrappano alle sponde del gommone, ammutoliti e rigidi (il nono giorno, quando ci accingiamo ad affrontare le rapide più insidiose, le Lava Falls, il membro più pauroso del gruppo siede calmo, serafico perfino. Ormai siamo consapevoli del genere di liberazione che il fiume, la musica e lo sforzo di mettere a tacere la paura che ognuno provava per sé e per gli altri hanno operato in noi).
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