Imprese cinesi, 7 su 10 sono illegali

Enrico Lagattolla

Sette arresti, dodici aziende irregolari su sedici controllate, una percentuale di lavoro abusivo che supera il 70 per cento. Fotografia impietosa dell’imprenditoria cinese sul territorio lombardo, dati che emergono dall’operazione «Marco Polo», vasto intervento condotto da maggio a giugno di quest’anno da carabinieri e Ispettorato al lavoro con la collaborazione di Inps e Inail, e coordinata dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Una vera e propria industria parallela della contraffazione in cui «intere famiglie di immigrati - spiega il sottosegretario al Lavoro Roberto Rosso - vivevano e lavoravano spesso in condizioni di schiavitù». Altri numeri che inquadrano «un fenomeno dalle dimensioni sorprendenti»: 135 i cinesi che lavoravano all’interno dei laboratori abusivi, spesso costretti a condizioni di vita estreme e a turni estenuanti. Di questi, 96 erano impiegati in modo irregolare (71 per cento), mentre 42 erano sprovvisti di permesso di soggiorno (44 per cento).
«Ci siamo trovati di fronte a un’organizzazione industriale clandestina». Modello cinese su territorio italiano, così spiega Rosso. «Per rendere ancora più redditizio il lavoro a basso costo, si sono trasferiti i sistemi di produzione cinesi nel nostro Paese». Colpisce, cioè, l’esportazione dalla Cina di un modello, l’introduzione in Italia di «metodi di lavoro duri e disumani».
Delle sette persone arrestate, tre dovranno rispondere di sfruttamento e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In più, sono stati contestati 27 illeciti penali e 163 amministrativi, recuperati oltre 140 mila euro in crediti evasi, e comminate sanzioni amministrative per un totale di 58.600 euro.
«Il nostro intervento - prosegue il sottosegretario - intende reprimere il lavoro nero all’interno della comunità cinese, e fare luce su un piccolo Stato nello Stato, un Terzo mondo dentro i nostri confini, organizzato e allestito forse anche con complicità locali».
L’operazione, che in Lombardia si è concentrata sui territori di Brescia e Como (ma non si esclude che possa essere estesa anche al capoluogo), ha coinvolto altre quattro regioni (Marche, Puglia, Toscana e Veneto), presentando uno scenario globale ancor più allarmante: l’80 per cento delle imprese cinesi che operano in Italia sono risultate irregolari, basate su strutture malavitose e affidate a dei prestanome. Strutture radicate ed efficienti, tanto da far pensare a possibili coperture e collusioni con industrie e marchi italiani.
«Ora tocca alla magistratura fare chiarezza sul fenomeno - conclude Rosso -, e stabilire se vi sia o meno il coinvolgimento di aziende italiane. Sarebbe un fatto estremamente grave.

Ci troveremmo di fronte a imprenditori che hanno ricevuto finanziamenti dallo Stato per liquidare i propri dipendenti, e che poi hanno appaltato una nuova impresa cinese in italia».

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