Enrico Lagattolla
Lo aspettavano in aula, Mario Curci. Alla decima sezione penale del Tribunale, davanti al giudice Michele Montingelli. Incriminato per violenza privata, lesioni personali aggravate e maltrattamenti in famiglia. E il giudice cera, cerano gli avvocati e la pubblica accusa. Mancava solo lui. «Dovè limputato?». Mario Curci non ci poteva essere. Morto tre giorni prima, suicida a San Vittore. Nessuno ne sapeva nulla. Nonostante il legale avesse chiesto accertamenti psichiatrici, perché Curci qualche segno di squilibrio laveva già dato, divorato dalla depressione. Niente. «Corto circuito» nelle comunicazioni, e sentenza di non luogo a procedere per intervenuta morte del reo.
E le motivazioni della sentenza, depositate lo scorso 4 febbraio, hanno del surreale. «In data 30 gennaio 2006 (giorno della prima udienza, nrd) è pervenuta comunicazione che Curci Mario è deceduto in data 27 gennaio 2006». Non bastasse, ancora più assurdo è stato il modo in cui il Tribunale apprende la notizia. Limputato è assente. Si presenta invece un medico, chiamato a deporre come teste. Un medico che, tra laltro, lavora anche allIstituto di medicina legale. «Tre giorni fa - dice - abbiamo ricevuto il corpo di un certo Mario Curci. Non è che è lo stesso?». Gelo.
Disposti gli accertamenti, si scopre che Curci era effettivamente morto a tre giorni dal processo, impiccandosi nella sua cella di San Vittore. Quindi, limbarazzante sentenza. Non basta, perché due mesi prima la difesa dellimputato aveva depositato unistanza con cui si richiedeva «di disporre accertamento tecnico-scientifico di profilo psichiatrico, onde valutare la necessità di applicare misura restrittiva diversa da quella carceraria in esecuzione». Limputato, spiegava la difesa, «versa in una grave crisi depressiva».
Risposta, il giorno dopo, del pubblico ministero titolare del procedimento. «Il pm rende noto che non intende richiedere accertamenti medici, né revoca o sostituzione della misura cautelare». Una decisione difficile, limputato è tuttaltro che un santo. Anni di liti con la moglie, di violenze e insulti. Fino al 9 agosto del 2005, quando si presenta davanti a casa della moglie, da cui si era separato, armato di balestra e frecce. «Ti uccido», le dice. Prende un coltello, lo punta contro la donna. Poi accade qualcosa, e quel coltello lo rivolge contro se stesso, e si pugnala allo stomaco. Lo arrestano, e nonostante questo continua a minacciare la moglie, questa volta per telefono. «Curci resti in carcere», decide laccusa. E nulla cambia nemmeno dopo che è lo stesso giudice a disporre un accertamento medico. Luomo, secondo i periti, è «compatibile con il regime carcerario». Punto e chiuso.
Rinviato a giudizio.
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