Le incongruenze del caso

Si davano molto da fare, anche se concludevano poco o nulla, i Lombardi, i Martino e gli altri loro amici. Pensavano di poter agganciare i giudici della Consulta, quelli della Cassazione, e poi quelli di Milano e pure gli ispettori del Ministero. Che, naturalmente, non avevano seguito le sollecitazioni della P3, scatenata nel chiedere un’ispezione a Milano per il caos liste in vista delle regionali e il testacoda, per sua fortuna solo provvisorio, della lista Formigoni. Un impasto di spregiudicatezza, dilettantismo e megalomania, questa P3, pure giudicata con grande severità dai giudici che parlano di «grave quadro indiziario nei confronti degli indagati».
Del gruppo faceva parte pure l’assessore regionale campano Ernesto Sica. Sica sosteneva che Berlusconi gli doveva molto. Il motivo? L’assessore, a leggere i verbali di Martino, era sicuro di aver provocato, nientemeno, la caduta del governo Prodi. Come? Aveva sganciato con l’aiuto di un imprenditore ingenti oboli per convincere un paio di senatori della risicatissima maggioranza di centrosinistra a cambiare schieramento. Martino ricorda due nomi: Giuseppe Scalera e Giulio Andreotti.
Sica era così sicuro di aver sbaragliato con le sue sole forze il governo Prodi da essersi messo in testa di ottenere come premio la candidatura alla presidenza della regione Campania. Alla fine, il Pdl scelse invece il socialista Stefano Caldoro e Sica, che già era convinto di aver espugnato Palazzo Chigi, pensò bene di impallinarlo diffondendo la voce di sue presunte frequentazioni transessuali.

Solo che si confidò proprio con Martino che prontamente riferì allo stesso Caldoro. Che oggi è il presidente della regione Campania. Sica, invece, quando è esploso lo scandalo, ha perso pure la poltroncina da assessore.

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