Indagini sui cori della vergogna: è giallo

da Roma

Difficile definirla «un’inchiesta fantasma». Ma quando le denunce si disperdono strada facendo, le informative cambiano destinatario, i fascicoli risultano più d’uno e gli indagati ufficiali non hanno niente a che fare con i nominativi indicati negli esposti, qualche perplessità sorge. Soprattutto in chi chiedeva un minimo di giustizia per i cori vergognosi («10,100,1.000 Nassirya») urlati nella manifestazione pro Palestina del 18 aprile scorso organizzata a Roma dal Partito dei comunisti italiani di Oliviero Diliberto e Marco Rizzo, presenti alla manifestazione.
A definire quantomeno «strano» l’iter giudiziario seguito dalla denuncia-querela nei confronti dei parlamentari del Pdci, sono Bruno Berardi, presidente dell’Associazione vittime del terrorismo, e il suo avvocato, Luciano Randazzo. Il perché è presto detto: il 20 febbraio 2006 Berardi consegna ai carabinieri il suo atto d’accusa contro gli autori dei cori infami sui 19 caduti dell’Arma e dell’Esercito in Irak che «venivano ricordati non certamente come martiri del terrorismo omicida ma come degni depositari di un interesse imperialistico e colonialistico e come tali - è scritto - giusti obiettivi del terrorismo». Ma il dato più grave ed inconcepibile, a parere di Berardi, è «la presenza in prima fila degli onorevoli Diliberto e Rizzo» che oltre ad «avallare esplicitamente quelle frasi in danno dei caduti italiani, violava oltre che precise norme penali, anche quel comune senso di pietas che deve caratterizzare il rispetto dei defunti in particolare quando questi sono caduti nell’adempimento di un legittimo dovere». Detto ciò, Berardi e l’avvocato Randazzo chiedevano ai magistrati che si procedesse nei confronti di Diliberto e Rizzo dopo aver sequestrato i filmati delle tv con le immagini della manifestazione. I carabinieri raccolgono la denuncia sui cori infami contro i loro colleghi caduti a Nassirya e la trasmettono in tempo reale alla Procura di Roma (l’atto viene classificato sotto la voce «noti» col «numero 872160, rapporto 45/17, persona offesa: Bruno Berardi»). Passa un po’ di tempo e dell’inchiesta non si sa praticamente nulla, ad eccezione di un articolo stampa che a sorpresa annuncia l’archiviazione. Berardi e Randazzo cascano dalle nuvole, corrono in Procura a protestare ancorché, nell’esposto, avevano espressamente chiesto di essere avvertiti in caso di archiviazione (per proporre un’eventuale opposizione). «Il pm Capaldo - racconta Randazzo - dopo qualche giorno ci dice che non era tenuto a informarci perché, a suo avviso, Berardi non andava considerato parte lesa». Con ulteriore sorpresa il legale scopre che l’informativa dei carabinieri iscritta col numero 9754/06, vede Berardi parte lesa e come indagato un non meglio specificato cittadino romeno (nessun riferimento vi è a Rizzo e Diliberto). Ma c’è di più. Per uno strano scherzo del destino Randazzo trova un secondo fascicolo, intestato stavolta al pm Maiorano, nel quale gli avvocati di Diliberto e Rizzo hanno recapitato alcune loro istanze sulla vicenda dei cori di Nassirya. In quest’altro procedimento Berardi è sì parte offesa ma non per la storia dei cori bensì per una questione di truffe ai suoi danni che nulla c’entra con Diliberto e Rizzo, con gli «slogan 10,100,1.000 Nassirya», con gli accertamenti che si sarebbero dovuti fare per venire a capo dei responsabili di quelle frasi oltraggiose. Un rompicapo. Un bel giallo.

Su cui Randazzo e il presidente dell’Associazione vittime del terrorismo vogliono andare a fondo. Per amor di verità, dicono, e per rispetto di quei carabinieri uccisi due volte: da una bomba di un kamikaze e dalla voce dei tifosi della Jihad.

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