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Indignati, il primo trionfo: 21 licenziati

Protesta continua a New York. I difensori dei poveri? Creano nuovi poveri: il padrone di un bar manda a casa i dipendenti perché non lavora più. Troppi sit-in e polizia a Wall Street: impiegati e funzionari evitano di bere il caffè fra transenne e agenti

Indignati, il primo trionfo: 21 licenziati

Nella gara a chi è più indignado, a New York, il signor Marc Epstein e i suoi boys andranno collocati lassù, in uno dei posti di alta classifica. Epstein e la sua band - furibondos mica male - ce l'hanno con gli Indignados che da settimane assediano Wall Street protestando contro i geni del male della Finanza. E insomma tra lui e i suoi dipendenti (Epstein ha un bar) e gli Indignados veri e propri, da un po' di tempo non si capisce chi è più arrabiado. L'unica cosa sicura è che, come sempre, e a ogni latitudine, si tratti del G8 di Genova o dello sciopero dei controllori di volo dell'Alitalia, o di una manifestazione contro il consumo dissennato di vongole nel Maine, chi protesta se ne frega dei danni fatti patire ai poveri cristi che chiedono solo di fare gli affari propri. E se invece di impiombarne solo la giornata lavorativa ne impiombano addirittura il lavoro, nel senso che glielo fanno perdere once and for all, come dicono a New York, cioè per sempre, che gliene frega, agli Indignados di mestiere?

La storia del signor Marc Epstein è piuttosto esemplare, come si vedrà. Proprietario di un bar situato nei pressi della Borsa di New York, giù a Manhattan, Epstein è stato costretto a mandare a casa 21 dei suoi 97 dipendenti a causa dell'emorragia di clienti innescata dalla protesta no stop degli indignados che da settimane cingono d'assedio il tempio della finanza.
Chi ci va più al «Milk Street Cafè», un tempo ritrovo alla moda degli impiegati e dei funzionari di Wall Street che ne affollavano i tavolini per un coffee break o per un'insalata, nell'intervallo di pranzo?

«Qui ormai è diventato un casino continuo», dice Epstein, stesso cognome del mitico manager dei Beatles, puntando il dito contro le transenne della polizia che recintano, frammezzano, spezzettano, gimcanano (se si può dire) l'area prediletta dai fanatici di "Occupy Wall Street" che a Wall Street hanno piantato le tende. «Tra sirene della polizia, urla dei manifestanti, slogan e ululati di questi signori che non fanno un c.. dalla mattina alla sera, e non si capisce chi li mantiene, molti clienti si sono squagliati».
Così, in due giorni, Epstein ha chiamato un quarto dei suoi impiegati, gli ha spiegato che il locale procedeva a una riduzione dell'orario di apertura e mentre quelli montavano una bella aria da indignados li ha mandati a casa con tante scuse, invitandoli a prendersela con gli Indignados di mestiere giusto di là dal marciapiede.

Da quando è cominciata l'occupazione di Zuccotti Park, dice Epstein, il suo «Milk Street Cafè» ha registrato un calo negli affari del 30 per cento, più o meno come l'indice del Nasdaq. «Non è solo una faccenda fisica, è anche psicologica - spiega il padrone del bar -. Anche se la paura di prendersi qualche schiaffone o qualche manganellata dai poliziotti, e magari anche peggio, nel corso di qualche carica, ha indotto molti a cambiare aria». Inutili le sue petizioni alla Polizia, ai funzionari del Comune e allo stesso Donald Trump, proprietario dell'edificio in cui si trova il suo caffè. La sua richiesta di rimuovere almeno le transenne della Polizia, che danno a quello spicchio di quartiere il tono di una città sotto assedio, è caduta nel vuoto. Il portavoce del sindaco Bloomberg se l'è cavata come fanno i politici, impilando una serie di chiacchiere. Al che Mr.

Epstein gli ha detto che se sarà costretto a chiudere il locale, il signor sindaco dovrà vedersela con un centinaio di indignados di genere un po' più nervoso dei bighelloni di Zuccotti Park.

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