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Inferno a Bangkok, chiudono le ambasciate

Ventiquattro morti in due giorni, otto solo ieri. I feriti si contano a decine, ed è una contabilità ardua quanto imprecisa: solo ieri ne sono stati curati negli ospedali di Bangkok almeno una cinquantina, mentre le violenze continuano. E mentre le ambasciate occidentali chiudono i battenti e i governi (incluso il nostro) invitano a evitare i viaggi in Thailandia, nella capitale è sempre più l’ora di una sanguinosa resa dei conti.
Il governo rifiuta di porre un freno ai militari, anzi ne difende l’operato parlando di legittima difesa dell’ordine costituito e intima con toni sempre più perentori alle «camicie rosse» di interrompere la loro protesta. Ma i battaglieri sostenitori del deposto premier Thaksin Shinawatra non intendono cedere e si scivola pericolosamente verso la guerra civile.
«Il governo deve andare avanti - ha detto intervenendo in televisione il premier in carica Abhisit Vejjajiva -. Non ci possiamo ritirare. Quello che stiamo facendo è per il bene del Paese». Non sono assolutamente d’accordo su questo le camicie rosse, esponenti più esacerbati e combattivi di un popolo che sente la casta militare come estranea alla democrazia, tanto più in quanto di fatto alleata con la parte politica che ha a suo tempo estromesso il leader più popolare della Thailandia con metodi assai poco trasparenti.
Il premier Abhisit ha promesso di «riportare l’ordine nel tempo più breve e con il minor numero di vittime possibile», ma il clima di violenza che si vive nelle strade del centro di Bangkok non è quello delle operazioni «chirurgiche»: bombe, sparatorie, lacrimogeni, morti sul selciato suggeriscono invece che si sia appena all’inizio di qualcosa di molto grave. Le truppe inviate dal governo sparavano anche ieri addosso ai manifestanti, che rispondevano con lanci di bottiglie molotov e di pietre, ma anche scatenando una guerriglia urbana a base di incendi di pneumatici e di automobili e pullman (anche un mezzo dell’esercito è finito bruciato).
È però uno scontro impari, se solo si pensa al fatto che i soldati usano ormai senza troppi problemi armi automatiche contro le camicie rosse: questo significa che vengono sparati proiettili da guerra. Il loro obiettivo è la resa dell’accampamento recintato che i fedeli di Thaksin hanno costruito ormai oltre due mesi fa nel cuore del distretto commerciale della metropoli thailandese. Per raggiungere questo obiettivo stanno progressivamente chiudendo gli spazi attorno alla «fortezza» ribelle, usando filo spinato e istituendo posti di blocco.
Dopo il ferimento quasi mortale del leader militare dei ribelli, l’ex generale Khattiya Sawisdipol detto Seh Daeng, il Comandante Rosso, al terzo giorno di lotta impari con le scorte di acqua, cibo e carburante che cominciano a scarseggiare, da parte del movimento anti-governativo si affaccia la disponibilità ad avviare colloqui con il governo: in cambio del ritiro delle truppe viene proposta una tregua. Il leader anti-governativo Natthawut Saikua afferma che i colloqui con il governo hanno come obiettivo di evitare altro spargimento di sangue. Ma sembra improbabile, come ha dichiarato pubblicamente lo stesso premier, che il governo fermi la propria azione repressiva proprio ora che l’obiettivo pare a portata di mano.

E non a caso ieri la Casa Bianca ha fatto evacuare tutto il personale «non indispensabile» dall’ambasciata Usa a Bangkok.

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