«Di inguaribile c’è solo la mia voglia di vivere»

Fisicamente è uno tsunami ma non leva le emozioni

«Di inguaribile c’è solo la mia voglia di vivere»

Si nutre con alimenti artificiali, ha bisogno di qualcuno che lo lavi e lo vesta, gira in carrozzina e ha il mento sorretto da un collarino di supporto. Ma sorride, sempre. E ti dice che è fortunato. Per rilasciare l’intervista rimanda perfino il suo unico «vizio» quotidiano: una tazzina di caffè addensato, la sola cosa che può assaporare sul palato. Lui è Mario Melazzini, 53 anni, medico ematologo e malato di Sla (sclerosi laterale amiotrofica) da circa 8 anni. La malattia gli ha levato la possibilità di muoversi, ma non tutto il resto. «La mia voglia di vivere è inguaribile» spiega lui con gli occhi che brillano.
Da medico si è trovato a fare il paziente.
«Già e ho capito tanti errori dei medici. Dovrebbero ascoltare di più i malati. Non bastano la preparazione tecnica e i titoli accademici».
Quando è arrivata la diagnosi della malattia?
«Nel 2003, un anno dopo la comparsa dei sintomi. Ed ho capito che per un paziente la cosa peggiore da dire è che deve aspettare, che deve avere pazienza. Da medico non me ne ero reso conto».
Lei all’epoca non conosceva granché la Sla?
«Avevo reminiscenze universitarie, sapevo solo che non c’era nessuna cura e avevo dato una consulenza a una collega per un suo paziente. Stop».
La sua prima reazione?
«Ho pensato di farla finita. Si figuri, volevo morire e camminavo ancora. Ora non cammino, ho un buco nello stomaco e un ventilatore. Ma sono più forte».
Aveva anche preso appuntamento con una clinica in Svizzera per l’eutanasia, vero?
«Sì, una telefonata surreale, fredda, asettica, mi è sembrato di parlare con l’impiegato di un ministero».
E invece ora parla della malattia come di un valore aggiunto.
«È così. Intendiamoci, preferirei stare bene. Ma la malattia è un’opportunità. Fisicamente è uno tsunami, porta via tutto ma non le emozioni. Ho capito che la vita va difesa. Sempre. E vanno difesi i diritti dei malati».
Anche l’associazione Luca Coscioni difende i diritti dei malati ma tra questi ci mette anche l’eutanasia.
«Io no. La vita va tutelata dal concepimento alla sua fine naturale. Anche lo stato vegetativo è vita».
So che le era stato proposto di raccogliere il testimone di Coscioni.
«Sì, ma non è possibile un lavoro comune. Per difendere i diritti dei malati non occorrono bandiere politiche, basta seguire i principi della Costituzione. Non c’è un pro destra e un pro sinistra. C’è la persona».
Sta dicendo che bisogna imparare ad accettare la malattia?
«La dignità della vita non può dipendere dalla qualità della vita. So che parlare di dolore fa paura a una società che vuole tutti belli e affermati. Sembra ci sia una sorta di patente a punti per essere considerati socialmente».
Patente a punti?
«Sì, se ti ammali perdi punti finché non ti viene tolta la patente, cioè ti vengono levati i tuoi diritti».
Lei invece lotta perché i diritti di chi è malato vengano rispettati.
«Sì, troppo spesso il malato è abbandonato a sé e la sua famiglia resta sola. Grazie all’associazione Aisla tuteliamo chi si ammala. La Lombardia è la prima regione che ha istituito un assegno di supporto a chi viene colpito da Sla. Siamo riusciti anche a velocizzare le pratiche per l’invalidità civile».
Ed ora arriveranno anche 16 milioni dei cento del fondo per la non autosufficienza.
«Un’ottima notizia. Serviranno a realizzare il piano di continuità assistenziale. Sono contento che i fondi non arrivino dal 5x1000. Sarebbe stata una guerra tra poveri».
Dopo Aisila è nata anche la fondazione Arisla per sostenere la ricerca.
«Sì, di fatto abbiamo creato un unico contenitore che comprende Cariplo, Telethon, fondazione Vialli e Mauro e Aisla. Riusciamo a donare oltre un milione all’anno ai migliori progetti di ricerca italiani».
Qualche passo avanti viene fatto nella ricerca, vero?
«È appena stato identificato il gene che causa la sclerosi familiare. È una scoperta di un’importanza estrema anche se non riguarda tutti i malati di Sla. E comunque si precede a passi da gigante».
Questo lo dice da medico o da paziente?
«Diciamo così: parlare di passi da gigante per un paziente vuol dire che da un momento all’altro si arriva a una terapia. Purtroppo non è così».
E da medico?
«All’inizio mi sentivo sconfitto perché la Sla mi costringeva ad ammettere il limite della medicina.

Come oncologo avevo sempre qualche arma in mano, in questo caso no. Però si stanno facendo grossi passi avanti anche nelle cure di supporto. E la mia speranza cresce. Come medico, come paziente e come uomo».
Grazie dottor Melazzini, la lascio al suo caffè.
«Addensato».

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