«Insegno la Cabala per avvicinare l’uomo al divino»

Daniela Abravanel è una donna minuta, con un volto scarno e due occhi nerissimi e penetranti. Porta uno dei nomi più illustri dell’ebraismo sefardita, cioè spagnolo. Diretta discendente di Don Itzhak Abravanel (commentatore della Bibbia, filosofo, poeta, astronomo, finanziere e uomo politico), vive a Gerusalemme e dirige un centro di ritiro spirituale e terapeutico nella Galilea. Scrittrice di successo, i suoi libri di divulgazione dell’insegnamento mistico della Cabala (Guarire per curarsi, ed. Lulav; Cabala e trasformazione con le lettere ebraiche, ed. Mamash) hanno avuto varie ristampe in Italia. Ma la sua vita è un romanzo.
«Dopo essermi laureata in filosofia a Milano - mi dice - ed essermi appassionata alla psicologia, capii che c’era qualcosa al di là della morte e della mente razionale ereditata nei miei anni di immersione nel marxismo. Una nuova laurea in psicologia all’Università di Los Angeles, tuttavia, non mi soddisfece. Partii per il Messico e andai sulla costa caraibica di Tulum e Chetumal, a lavorare come esperta subacquea. Per un anno vissi immersa nel mare, pescando in acque profonde. Quel contatto con la natura liquida fu anche il mio primo reale contatto con i misteri dell’anima. Una specie di lungo bagno purificatore dalla cultura occidentale».
A indirizzarla sulla strada della spiritualità fu una curandera locale di nome Sara. La condusse nella giungla a conoscere Panchito, uno sciamano discendente dell’antica casta dei sacerdoti Maya che ebbe per lei il ruolo che il famoso Don Juan ebbe per Castaneda. «Panchito - dice - viveva in una capanna sprovvista di tutto. Mi ricevette disteso su un’amaca emanando intorno a se un calore che a me parve possedere una dimensione di luminosità. Sapeva tutto di me senza che gli avessi raccontato nulla. Lo frequentai per mesi sino a quando mi consigliò di lasciare il paradiso che credevo di aver trovato su quella sponda di mare invitandomi a continuare a studiare per “apprendere nuovi modi per servire il divino”. Mi recai in India a studiare tecniche yoga e buddhismo, stupita di scoprire che il 60 per cento degli europei che incontravo negli ashram erano ebrei in cerca di spiritualità che non avevano trovato né nell’ebraismo liberale, aperto, né in quello chiuso, ortodosso. Scoprii le molte similitudini fra la Cabala e spiritualità orientale, l’importanza delle discipline spirituali legate al corpo e alle sue funzioni. Lo Yoga, il Tai Chi sono oggi strumenti usati da molti ebrei ortodossi per vivere, come dice Giobbe, “nella propria carne”, per percepire i messaggi della psiche e dello spirito. Quando li si rifiutano, arrivano sotto forma di malattia, o di guai di altro genere, il che non è il modo più gratificante per ascoltare la voce del divino».
Il successo dei libri della Abravanel è curioso tanto per il suo approccio originale, quanto per il consenso che questi suoi scritti incontrano nel mondo ortodosso ebraico, sospettoso nei confronti della donna che si occupa di questioni religiose.
Le chiedo di darmi la sua definizione della Cabala. Mi dice che «una risposta classica potrebbe essere quella di una tradizione esoterica che commenta il testo biblico trasmessa oralmente e per secoli in segreto da padre in figlio o da maestro ad allievo. Ma se ci si pone a un livello più universale, valevole per tutti, ebrei e non ebrei, si potrebbe dire che la Cabala è la scienza che insegna a ricevere e accogliere la vita, in ogni suo aspetto. Un vero cabalista sa accogliere l’amore divino, sa ricevere e decifrare il suo messaggio nella vita quotidiana, mentre la società occidentale usa e sperimenta pochissimi sensi, male e materialmente (cibo e sesso). I sensi dovrebbero rivelare il divino e non nasconderlo. Facendo all’amore con la propria compagna si dovrebbe incontrare l’Altra parte della Divinità, nel cibarsi dovremmo riconoscere le scintille di divinità discese e condensate nella creazione fisica. Idem nel toccare o odorare un fiore. Cabala vuol anche dire capacità di accettare prove come parte di un percorso di allargamento della propria consapevolezza del divino».
La novità della Cabala moderna, non da ciarlatani, sviluppa una dimensione di psicologia meditativa di interesse tanto per il malato, quanto per il medico e lo psicologo. La società moderna è malata di «oralità»: mangiamo insoddisfatti, male e di tutto. La meditazione cabalistica, simile a quella zen, mira a «curare» questi squilibri accentuando la coscienza del «femminile» nel divino, accessibile a tutti nell’esperienza sensoriale sublimata.
Per la Cabala moderna che Daniela Abravanel cerca di insegnare, il contatto con il cibo è potenzialmente un incontro con il divino. I cristiani l’hanno del resto capito nel simbolo dell’Eucarestia. Partendo da questo concetto ha incominciato a insegnare e a scrivere libri centrati sul tema della guarigione. Vive studiando, commentando testi antichi in linguaggio moderno ad «allievi-pazienti» che si rivolgono a lei provenendo da molte parti del mondo. Organizza percorsi di «contatto con la natura» in Israele, promuove incontri con cabalisti guaritori, artisti, medici e psicologi interessati a trovare una guida in campi non convenzionali, a comprendere qualcosa di più sulle radici ebraiche del cristianesimo.

Basandosi e vivificando gli aspetti del Talmud e della Cabala che ricordano i doveri dell’uomo verso l’ambiente. Aspetti poco noti dell’ebraismo che ne fanno emergere il messaggio universale volto a preservare il pianeta e l’umanità.

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