Insonnia d’autore

Kafka soffriva per le sue veglie forzate, Blazac scriveva tutta la notte. Un breve catalogo dei grandi incapaci di cadere nelle braccia di Morfeo

Insonnia d’autore

«Dopotutto, qualcuno
che rimane sveglio ci vuole».

Franz Kafka

Un’insonnia divina. Fu tale all’inizio dei tempi. In un’antica epopea babilonese si narra di una guerra celeste in cui gli dèi più anziani uccisero il capo della fazione avversaria e dai suoi resti crearono i primi esseri umani. Ai quali imposero, al solito, lavori manuali e di servitù. Ma a un certo punto gli umani presero ad amarsi nottetempo in modo così rumoroso che il dio Enhil perse il sonno e mai più lo recuperò. Solo a Gilgamesh, altro remotissimo eroe, andò meglio, o peggio, a seconda dei punti di vista: nacque insonne, tout court. Aveva così tanta energia nel sangue che non dormiva mai.

Le stelle e il soffitto
Ma a quei tempi era bello stare svegli la notte. Nel cielo luminoso silenziose si incrociavano le stelle, non gli aerei, e l’oscurità delle foreste riempiva l’animo di angosciato stupore. I nostri progenitori non pretendevano come noi un sonno continuato, dalla sera all’alba, ma anzi popolavano le ore notturne di riti e celebrazioni: non solo per restare di guardia contro animali predatori o tribù nemiche, ma anche per vivo senso del sacro. Così racconta la studiosa Eluned Summers-Bremner nel suo Insonnia. Una storia culturale (Donzelli, pagg. 202, euro 16), dotto e intenso libro che ci ha ispirato un breve e certo incompleto viaggio nella storia di coloro che conoscono alla perfezione, millimetro dopo millimetro, il soffitto della propria stanza.
Fu solo con i greci e i latini che si cominciò a considerare con sospetto l’insonnia: come se fosse indice di irrequietezza interiore, dovuta a crimini politici e di commercio da cui l’insonne si aspettava sicura vendetta. Pure nell’Eneide c’è una vera staffetta dell’insonnia tra Enea e Didone, ma occorre dire che l’essere innamorati a distanza è notoriamente causa di notti passate a sognare a occhi aperti la vicinanza della persona amata: «Lui non c’è, non c’è, ma lei

Diaboliche persecuzioni
Nel Medioevo, il passaggio decisivo: il non dormire si lega stabilmente all’ansia e si trasforma in quel disturbo - fisiologico, spirituale - che conosciamo ancora oggi. Le veglie di preghiera, le tentazioni del diavolo (che non conosce riposo), un’introspezione più attenta e tormentosa: tutto ciò contribuì in quei secoli bui a far rigirare sul pagliericcio milioni di peccatori; e pure ai nostri giorni, a confessar la propria insonnia si può essere accusati di aver qualcosa sulla coscienza. Il che qualche volta è vero, come nel caso dei poeti romantici: il «caos morale» che imperversava nelle loro anime, il desiderio di uscire dal proprio corpo ed essere tutt’uno con l’anima mundi, certo non facilitava loro il sonno. Quando se lo procuravano con l’uso di oppio - il sonnifero dell’epoca di De Quincey e Coleridge - si ritrovavano svegli molto prima dell’alba, dopo terribili sogni accompagnati da urla violente.

Un caffè allo sleen Per Balzac, invece, messo alle strette dai creditori e dalla volontà di arricchirsi per poter sposare la sua Eva Hanska, la notte significava una sola cosa: lavoro. Spesso accompagnato da potentissime miscele di caffè. L’atmosfera di Parigi - l’eccitazione isterica, la frenesia, l’illuminazione notturna - non doveva incoraggiarlo a concedersi un sonnellino. Molti scrittori dell’Ottocento si scontrarono con questo cambiamento radicale della dimensione notturna, provocato dallo svilupparsi delle città. Ancor prima che Baudelaire cantasse i suoi spleen, si era insediata nel cuore un’insonnia di peculiare origine metropolitana. Nello stesso periodo, però, in Giappone, non dormire era cosa dolce: diversamente, Tsukioka Yoshitoshi non avrebbe potuto dipingere il delicato ciclo Cento aspetti della luna, né Ueda Akinari scrivere i celebri Racconti del chiaro di luna e della pioggia.
Poi arrivò il Novecento, con la sua insonnia tragica. Basta leggere i diari di Kafka: «Domenica, 19 luglio 1910: dormito, destato, dormito, destato. Vita miserevole. 21 luglio. Non posso dormire. Soltanto sogni e niente sonno. 2 ottobre. Notte insonne. Già la terza in fila». E avanti così pagina dopo pagina, anno dopo anno, fino alla morte: vegliando, Franz scriveva lettere alla fidanzata, ma gli sembrava di spedire fantasmi, non fogli. È il più celebre insonne del secolo scorso, e gareggia con Nabokov. «La notte è un gigante» scrisse mestamente l’autore di Lolita, che negli appartamentini dove alloggiava «sotto un’anziana signora dai piedi di pietra e sopra una giovane donna dall’udito sensibile», trascorreva le ore del buio componendo problemi di scacchi e meravigliosi romanzi. Persino quando poté permettersi il Montreux Palace, sulle tranquille acque del lago di Ginevra, il sonno non arrivò.
Filosofica era la vigilanza notturna di Cioran, che la descrisse in pagine entrate di diritto nel Canone Letterario degli Insonni: «Tre del mattino. Un secondo, poi un altro. Faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? Perché sono nato. C’è un tipo speciale di veglia che deriva dalla messa in discussione della nascita». E ancora: «Con l’insonnia, alle undici del mattino siete esattamente allo stesso punto delle undici della sera prima. Non c’è alcun progresso. Se non un’immensa notte, ferma lì, trascorsa. Ma la vita non è pensabile se non nella discontinuità che dona il sonno. Se questo sparisce, si genera una sorta di continuità funesta». Che Ernest Hemingway, insonne da alcol per buona parte della vita, conosceva bene. Non aveva compiuto cinquant’anni che già scendeva dal letto alle quattro e mezzo del mattino, versava il gin nel tè della prima colazione e iniziava a scrivere, in piedi.

Notti liquorose
Da questa logica si era salvato, nonostante lo accomunasse a Ernest l’entusiasmo per i liquori, Francis Scott Fitzgerald: almeno fino a quel fatidico anno, il 1935, in cui, messo al tappeto dalla sfortuna, scrisse i tre articoli raccolti in The crack-up. Tutti gli insonni appassionati di letteratura finiscono prima o poi per leggerli, imprimendosi nella memoria la celebre frase: «In una reale notte fonda dell’anima sono sempre le tre del mattino, giorno dopo giorno». Dev’essere lo stesso tipo di «notte oscura» di San Giovanni della Croce che scatenò in Tolstoj quel rivolgimento interiore descritto nella famosa Confessione, e in Nietzsche quel superamento (ipotetico) della disperazione che è l’idea dell’Eterno Ritorno. «Gente che la notte la conosce bene», vien da pensare, ricordando un verso di Robert Frost.

Illuminazioni di coscienza Nemmeno al cinema si può dormire. Sui set di Rainer Werner Fassbinder in particolare: quando la moglie lo trovò morto sul letto, davanti al videoregistratore acceso, a 37 anni aveva girato 43 film, uno ogni cento giorni per tredici anni, in una sorta di nichilista abuso di energie e in un completo rovesciamento dei cicli circadiani. «Dormirò quando sarò morto» ripeteva spesso. Al contrario dei registi, gli attori, se sono fortunati, l’insonnia la recitano soltanto: ricordate Al Pacino, in Insomnia, tentare disperatamente di oscurare la perenne luce dell’estate dell’Alaska che entrava dalla finestra? Che poi altro non era che il mormorio della sua coscienza. Toni Servillo, ne Le conseguenze dell’amore, ha tracciato altrettanto bene il quadro dell’insonnia contemporanea: «Esiste nel mondo una specie di setta della quale fanno parte uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni: è la setta degli insonni. I non aderenti alla setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: “Se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa”. Questo genere di frasi irrita i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice; chi soffre d’insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi».

Buia ossessione
Finché resta un’ossessione, però, difficile che vi addormentiate: le ossessioni si autoalimentano e soprattutto tengono svegli. Lo scrittore e critico d’arte John Berger ha descritto una differente strada verso il sonno, nel suo E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Un villaggio alpino, nell’Alta Savoia. È sera. A letto, una donna chiede a un uomo - un intellettuale? - qual è il suo pittore preferito.

L’uomo accenna dei bei pensieri su Caravaggio, ma a un certo punto si gira verso di lei: «Sul volto desiderato c’è un’espressione che va oltre, molto oltre l’invito; perché è un riconoscimento di sé, della crudeltà del mondo e dell’unico rifugio, l’unico dono: dormire insieme. Qui. Ora».

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