Roma - Ci volevano le vacanze ai Caraibi di Luigi Lusi, le Porsche dei Bossi junior e le pseudo-lauree dell’esoso amico di Rosi Mauro per resuscitare una previsione costituzionale sepolta da 60 anni?
A quanto pare sì. Perché gli scandali a ripetizione sulla gestione del finanziamento pubblico e sulla opaca vita interna dei partiti italiani hanno costretto tutti i big della politica, a cominciare dal terzetto ABC che guida la maggioranza, a correre ai ripari e a dare in fretta segnali di buona volontà che, dopo anni di bagordi, rassicurino la pubblica opinione. E così si parla non solo di rapide modifiche alla generosissima legge sui cosiddetti «rimborsi elettorali», ma anche di dare finalmente ai partiti e alla loro vita interna nuove regole e nuovi controlli.
Improvvisamente si sono accesi i riflettori su un dibattito che si trascina da quasi quattro anni nel disinteresse generale, nel chiuso della commissione Affari costituzionali della Camera, dove sono depositate le proposte di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. I testi sono lievitati nel corso delle ultime settimane: ora ce ne sono almeno una ventina alla Camera e altrettanti al Senato, e le ultime arrivate recano nomi altisonanti: da Pier Luigi Bersani a Pier Ferdinando Casini. Manca ancora all’appello, in verità, una proposta ufficiale del Pdl, che però ha promesso di inventarsene una in tempi brevi, magari a firma Angelino Alfano.
Non molti, tra i testi presentati, affrontano però direttamente il tema dei finanziamenti statali ai partiti, e nessuno si propone di abolirli. Qualcuno cerca di ridimensionarli un po’ e nel complesso tutti tentano almeno di sottoporli a controlli e regole più stringenti. Una delle proposte più recenti, quella dell’Udc firmata da Casini, sembra ricalcata pari pari sulle cronache dei giornali di questi giorni: propone che i partiti che non si presentano alle elezioni non ricevano più rimborsi e che i loro patrimoni siano incamerati dallo Stato (vedi caso Margherita); o che i partiti siano obbligati ad investire esclusivamente in «titoli italiani» (vedi caso Lega-Tanzania).
L’articolo 49 della Costituzione riconosce ai cittadini il diritto di «associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; ma tace sulla disciplina giuridica cui gli stessi partiti devono essere sottoposti. Sottraendo così la loro organizzazione interna ai controlli della legge, e lasciando campo libero ai clan, agli assi ereditari e ai padri padroni che, a leggere le cronache, fanno il bello e cattivo tempo dietro tante sigle di partito. Da sessant’anni si parla di una normativa che riconosca ai partiti personalità giuridica, da sessant’anni si rimanda. Ora, a quanto pare, si vuol fare sul serio e si cerca una mediazione che metta d’accordo le diverse proposte presentate. La prima in ordine di tempo (risale al 2008), quella del radicale Maurizio Turco, prevede paletti severi e un tetto più basso per i rimborsi elettorali, da versare solo a fronte di spese dimostrate, e bilanci certificati dalla Corte dei conti. Per Bersani, i bilanci dei partiti devono essere certificati da società di revisione dei conti riconosciute dalla Consob, e i rimborsi elettorali vanno decurtati del 25% ai partiti che non attuino le Primarie per selezionare i propri candidati (premier, sindaco, presidente di Regione e parlamentari). Per il Pd ci sono anche la proposta di Veltroni (50% del finanziamento pubblico in meno senza Primarie, riduzione da 1 euro a 0,90 euro per voto di rimborsi elettorali); e quella di Ugo Sposetti, tesoriere dei Ds, che fissa una cifra annua complessiva di finanziamenti da suddividere (185 milioni) e stabilisce che a percepirli siano le fondazioni di cui ogni partito deve dotarsi.
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