Roma - Per il Pd è certo un «momento molto difficile», come dice Guglielmo Epifani - il più applaudito ieri all'assemblea del gruppo parlamentare che doveva discutere della fiducia al governo Letta.
Tanta fatica e tante belle speranze per ritrovarsi ora mano nella mano con un Berlusconi in grande spolvero, meno smacchiato che mai; aggiogati a un governo di larghe intese per il quale il premier Enrico Letta disegna un orizzonte di legislatura; costretti ad applaudirlo con il Pdl in aula e a votarlo tutti insieme appassionatamente: la Bindi e la Brambilla, Zoggia e Brunetta, Orfini e Gasparri... È toccato proprio all'ex leader della Cgil, ieri mattina, convincere i 300 parlamentari che se ne dovevano, volenti o nolenti, fare una ragione. «Non ci sono alternative: o si fa questo governo, o si torna alle elezioni. Una terza opzione non esiste». E richiamare i riottosi, invitandoli a non fare le anime belle: «Nessuno si salva uscendo dall'aula. Sappiamo tutti che è un passaggio difficile, ma dobbiamo andarci mettendoci la faccia, non subendolo». Applausi scroscianti in sala per Epifani, e contro il reprobo Pippo Civati che aveva appena annunciato, «con amarezza e senza leggerezza» il suo rifiuto di votare per le larghe intese. L'unico dissenso alla Camera, mentre al Senato si astengono Walter Tocci e Lucrezia Ricchiuti, e il candidato sindaco di Roma Marino non va a votare con la scusa della campagna elettorale.
Con Epifani, nell'assemblea di ieri, ha fatto sponda anche Stefano Fassina, per convincere i compagni di partito che «nella situazione data Letta ha fatto un lavoro straordinario, e va sostenuto con lealtà e convinzione». Anche perché «il suo governo è un buon compromesso per avviare la Terza Repubblica, e il frutto politico più rilevante potrebbe essere la legittimazione reciproca tra parti che si sono contrapposte negli ultimi vent'anni».
I due, Epifani e Fassina (che non è entrato nel governo ma dice di «capire la scelta di tenermi fuori: è prevalso un segno di continuità con Monti, che una figura come la mia non poteva garantire») sono entrambi indicati come possibili «reggenti» del Pd con sede vacante, dopo le dimissioni di Bersani e l'ascesa di Letta a Palazzo Chigi. Ma in realtà la confusione sulla direzione da prendere è ancora molta, e l'Assemblea nazionale (che ha poteri vicari del congresso) è stata rinviata di una settimana, dal 4 all'11 maggio. Affidarsi a un personaggio sperimentato come l'ex leader Cgil (ma che agli occhi di molti ex Ds ha il peccato originale di essere stato socialista) o fare il «salto generazionale» e scegliere un giovane (con pedigree post Pci)? O ancora a un «comitato di reggenza» che tenga insieme le principali correnti? La partita si incrocia con quella del governo, peraltro: in settimana dovranno essere nominati viceministri, sottosegretari e presidenti di commissione, e di Epifani si parla anche per qualche posto di rilievo nel governo. Il congresso, che dovrà dare un assetto definitivo al partito, secondo Rosy Bindi «si terrà a settembre», e fino ad allora «serve una guida collegiale». Di certo occorrerà mettere mano allo statuto e separare le figure del segretario e del candidato premier, da scegliere con le primarie: «D'altronde - ragiona Epifani - è così in tutti i paesi dell'occidente: anche in America il capo del Partito democratico, che nessuno sa chi sia, non è il presidente Usa». I renziani sono d'accordo e non nascondono qualche preoccupazione per il futuro: se il governo durasse e avesse successo, la strada si farebbe in salita per Renzi. Che però ottiene la benedizione di Fabrizio Barca.
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