Era un rampollo della Roma borghese dignitosa e quasi spartana, orfano al collegio di via degli Orfani, dove sua madre Rosa diventò amica di mia nonna Amelia che aveva suo figlio, mio zio, nello stesso istituto. Così dispongo di alcune testimonianze sul bambino Andreotti, sempre vestito di vellutino nero e con il taccuino da giornalista in tasca, il giornalista come gioco. Sua madre commentava: «Questo figlio non mi sembra normale. O diventa qualcuno, oppure avrà una vita difficile». Diventò qualcuno, come sappiamo.
Apparteneva ad una tipologia romana molto lontana da quella resa dal cinema, da Alberto Sordi o da Verdone. Andreotti apparteneva al genere cattolico, ironico, dotato di un understatement naturale, qualcosa di molto simile allo spirito britannico, mai urlato, mai enfatico, sempre molto pratico e molto distaccato. Io l'ho conosciuto in tre momenti diversi: quando frequentava la casa dei miei genitori che erano suoi amici strettissimi mentre io lo detestavo; quando diventò una delle mie prede giornalistiche e quando ci ritrovammo insieme nella Commissione Mitrokhin di cui io ero il presidente e lui uno dei quaranta componenti. Era sempre lì, in prima fila, puntuale e immobile, così come era sempre lì in prima fila, puntuale e immobile al Senato dove il suo sedile e il suo schienale appaiono ancora oggi lisi perché Andreotti aveva un senso del dovere, della presenza, della meticolosità, che non ho mai visto in alcun altro politico. Era sempre lì prima degli altri. Attento, l'aria stupita, mille foglietti per i suoi appunti, sempre in frenetica e minuta attività.
Amava i pettegolezzi, ma gli piaceva ascoltarli e registrarli nella mente. Amava anche l'avventura in politica e sullo scacchiere della politica estera. Restava impassibile di fronte ai problemi più gravi e la sua reazione istintiva consisteva nel ridurre i problemi di una banalità sconcertante, ma praticava la formula della riduzione in frammenti perché sapeva che ogni singolo frammento, preso a sé, poteva essere inglobato in un mastice colloso e poi neutralizzato. Era dunque un artista del rinvio, ma non perché volesse evitare le soluzioni, quanto piuttosto perché sapeva che non ci sarebbe stata mai alcuna soluzione.
Penso che questo modo di fare abbia contribuito a fargli fare alcuni passi falsi, come quello di lasciarsi un po' troppo avvicinare in Sicilia da uomini chiacchierati. Dubito che Totò Riina lo abbia davvero baciato, ma penso che se si fosse trovato di fronte a una simile circostanza, avrebbe voluto vedere come andava a finire, per curiosità.
Aveva sviluppato, come Cossiga, una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti dei comunisti e dei sovietici. Con loro si trovava bene, a suo agio. Cosa comune a molti democristiani. Ricordo di aver accompagnato Amintore Fanfani in un lungo viaggio in Oriente e mi accorsi che in ogni aeroporto russo veniva accolto come un dio. Lo stesso avveniva per Andreotti.
Da uomo degli americani che era all'inizio, diventò per indole un antiamericano discretamente ostile al mondo statunitense. Fu lui, prima ancora di Craxi presidente del Consiglio, a creare le premesse per lo scontro di Sigonella nell'ottobre del 1985, ma senza darlo a vedere. Lasciò che Craxi si esponesse al suo posto. Stimava Craxi, che di lui diceva che «tutte le volpi finiscono in pellicceria». Si circondava di gente plebea come tutti gli aristocratici romani. Il suo fedele scudiero Franco Evangelisti - «A Fra', che te serve?» - era un cronista delle palestre di boxe della periferia romana e lui ne fece il suo braccio destro e il suo plenipotenziario nella trattativa con Enrico Berlinguer, finché quello non fu atterrato da un'intervista che concesse proprio a me e che segnò la sua fine. Evangelisti mi raccontò come funzionavano le mazzette sparse a piene mani fra i partiti e si dovette dimettere da ministro della Marina Mercantile. Quando incrociò Andreotti davanti a Montecitorio, Giulio si dice abbia sibilato soltanto «imbecille».
Ma aveva una sua profonda conoscenza della macchina statale e coltivava un profondo rispetto, direi sacrale, per la Repubblica e le istituzioni. Le sedute dell'assemblea Costituente lo videro giovane segretario d'aula e i suoi modi pacati e competenti incantarono Alcide De Gasperi che lo volle come suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio a soli ventotto anni. De Gasperi veniva da un mondo lontanissimo: era stato per anni deputato della provincia asburgica trentina a Vienna ed era un uomo lontano anni luce da quel ragazzo della buona borghesia romana, in confidenza con i preti e con l'associazionismo cattolico, un po' monsignore e un po' apostata per il piacere di mettersi di traverso e stupire.
Le sue foto degli anni Cinquanta e Sessanta lo mostrano presentissimo nei ristoranti, al teatro, sui set cinematografici. Era molto amico di Federico Fellini il quale a sua volta l'adorava, come lui stesso mi disse: «Andreotti è lo spirito della Roma politica e della sensibilità romana, è un uomo competente di cinema e di televisione, è un uomo che capisce e che non parla mai a sproposito. Preferisce non dire nulla, piuttosto che parlare di ciò che non sa». Gli album lo mostrano con tutti gli attori e le attrici dell'epoca d'oro di via Veneto e della «dolce vita». Era capace di stupirsi e lo faceva sgranando gli occhi in modo infantile, quasi irresistibile. Parlava con circospetta prudenza della morte, come se avesse timore ad evocarla e quando qualche mese fa fu ricoverato per una serie di problemi cardiaci, lo divertì sapere che tutti i giornali si erano affrettati a preparare il «coccodrillo», l'articolo bello e pronto in caso di morte di cui sono ricchi gli archivi di ogni redazione: «Il cielo può attendere» fu il suo commento.
Quando si è diffusa ieri a mezzogiorno la notizia della sua morte mi è tornato in mente lui seduto sul banco della Commissione dove arrivava sempre con largo anticipo. Eravamo spesso soli lui ed io e lui mi chiedeva notizie di mia madre: «Come sta mammà?» diceva all'uso romano derivato dall'occupazione napoleonica e dall'introduzione dialettale di radici francesi come maman, commode, tiroir e infatti diceva «tiretto» per dire cassetto, come avevo sentito dire soltanto a mia nonna. E gli piaceva rivocare la stagione dell'infanzia fra le strade del rione Parione, dietro piazza Navona dove aveva abitato per decenni e dove abitava anche la mia famiglia. Poi arrivavano gli altri commissari, ognuno rientrava nel suo personaggio e Giulio Andreotti diventava un mio ostico e caustico avversario.
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