Dalla Trise alla Tari. Cosa nascondono le sigle da brivido

Solo a pronunciarne il nome, vengono i brividi e, alle epidermidi più delicate, l'orticaria

Solo a pronunciarne il nome, vengono i brividi e, alle epidermidi più delicate, l'orticaria. È la Tarsu, la madre di tutte le imposte. Rimbaud diceva in una poesia che, se le vocali hanno un colore, la «a» è nera e villosa come il groppone di una mosca. Inchiodata lì, nella sillaba iniziale della Tarsu, è nerissima, funerea. Immaginiamo che Tarsu sia una parola, un sostantivo, non un garbuglio di sigle. La sua radice tar- sarebbe riconducibile al greco antico. Anche a quei tempi, faceva sudare freddo dal terrore. Ne veniva infatti Tàrtaro. Più tardi, il vocabolo avrebbe indicato un malanno dei denti. Ma, in origine, era il mondo dei morti, condannati a gelo eterno, isolamento e buio totale. Una voragine pazzesca sotto la terra. Un'incudine, lasciata cadere dalla crosta del pianeta, rovinava nel vuoto per nove giorni, prima di rimbombare cupamente laggiù. Il tarbos, in greco, era lo sgomento. Pare che la funesta sillaba sia onomatopeica: assomiglia al gemito di chi batte i denti. Ed eccoci alla Trise. Dalla padella alla brace. L'origine ci rimanda al latino tristis: non c'è bisogno di tradurre. Il termine è parente stretto del verbo tero, logorare, battere, trebbiare il grano. Il suo participio tritum, sta alla base del nostro contrito. Molte parole che cominciano con tri- includono disfacimento e dolore: trivella, tritume, tribolo, che a quei tempi era un arnese bellico antiuomo, spuntoni di ferro saldati a una sfera che, sparpagliati sul campo di battaglia, mantenevano sempre un dardo velenoso ritto verso l'alto. La Tares suona come un sottoprodotto del verbo greco tarasso, sconvolgo, provoco disordini, specialmente politici: la tarachè era la sommossa, il coperchio dell'ira popolare che salta sotto la pressione dello scontento.

La Tasi ostenta una sua naturale affinità con tassa, parola che secondo alcuni deriva dal latino taceo, taccio (da qui il nostro «sta' zitto e paga»), secondo altri dal greco tasso, metto in riga, stabilisco, da cui il verbo taxo della lingua di Roma, che descrive l'atto d'imporre un valore, un prezzo. Quanto alla Tari, è quasi un'eco di tara che (a parte il significato di grave handicap) viene dagli arabi, scrupolosi mercanti, che con quel termine indicavano la corretta sottrazione del peso del contenitore da una merce. Un alleggerimento, un nome perfetto per qualcosa che ci svuota le tasche. Anche le imposte defunte avevano nomi amari. Imu: sembra imo (dal latino infimus, che sta al punto più basso), peggiorato dalla lugubre «u» finale. L'obsoleta Ici è un conio dal latino classico: è la forma del tempo perfetto, cioè passato remoto, del verbo icio, colpisco.

È come se il fisco dicesse: «Ti ho dato una stangata», un ictus. Quella dei nomi è una questione di pura accademia: se cambiassero, la sostanza resterebbe invariata. Ma se fossero un po' più dolci - con un poco di zucchero - ingoieremmo la pillola (forse) con minor disgusto.

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