Polvere, montagne, esplosioni, altra polvere, bambini, sorrisi, urla, raffiche, altre esplosioni, falsi allarmi, ied, il medevac che arriva in tempo, il medevac che non arriva in tempo...
Questo è l'Afghanistan per le truppe che hanno partecipato e che partecipano alla missione Isaf. Gli italiani che sono stati là, dal 2001 sino a ora, sono stati 35mila e ancora oggi resta un contingente di poco meno di 2mila unità. I caduti sono stati 53. I feriti molti di più. E a volte tornare a casa non è semplice, non basta vedersi chiudere alle spalle il portellone del C-130 perché tutto torni come prima. Essere dei reduci, essere quelli che ce l'hanno fatta, magari lasciandosi dei morti alle spalle, ha un prezzo. Un prezzo di cui è giusto parlare, perché quegli uomini e quelle donne che hanno difeso una Fob (Forward operating base) in qualche vallone sperduto, o fatto sicurezza su una strada bersagliata dai talebani, lo hanno fatto con un tricolore sulla spalla. E quando tornano non devono essere lasciati soli.
Ecco, allora, ben venga il documentario che è stato presentato ieri a Roma e che s'intitola Reduci (andrà in onda in prima visione domenica 3 novembre su Sky Cinema Cult HD e poi a gennaio arriverà su History). Diretto da Andrea Bettinetti e realizzato con il supporto dell'Esercito italiano, mette sotto gli occhi di tutti un tema ritenuto finora in Italia quasi tabù. Nel racconto non c'è alcuna retorica. Solo immagini che vengono dirette dal campo di battaglia e interviste.
Il caporal maggiore Monica Graziana Contrafatto, filmata durante la rieducazione presso il Centro protesi di Budrio, racconta l'attacco a colpi di mortaio subito dalla sua base nella valle del Gulistan: a un collega (Michele Silvestri) è costato la vita, a lei una gamba. Però questa ragazza con gli occhi grandi, nascosti da occhiali grandissimi e un ciuffo impertinente, non ha mai mollato, e spesso quando racconta, davanti alle telecamere, trova anche la battuta, l'ironia: «Mi è capitato di scordarmi che mi manca la gamba, mi sono alzata dal letto di colpo... ho fatto un tonfo allucinante... in fatti oggi tengo le grucce vicino così le vedo quando mi sveglio». Va avanti, cerca di camminare, di lavorare, di essere felice: «Credo che Dio mi abbia dato una seconda possibilità. Un altro dei suoi colleghi alla Fob Ice, il maresciallo ordinario Carmine Pedata, è rimasto ferito in svariate parti. Non è semplice per lui tornare in famiglia, ha scelto di non lasciare l'ospedale militare sino a che non avrà un grado di autosufficienza tale da presentarsi «nel modo giusto» alla moglie e alla figlia. E c'è chi come il primo caporale maggiore Simone Careddu, per colpa di una bomba improvvisata, resterà paralizzato per tutta la vita. La sua fidanzata si è trovata di fronte alla drammatica scelta: lasciarlo o sposarlo su una sedia a rotelle. Lo ha sposato e gli sta sempre vicino.
E poi c'è chi come il caporal maggiore scelto degli Alpini Luca Cornacchia ha riportato ferite meno gravi. Però ha visto morire tutti gli altri membri dell'equipaggio del suo blindato lince. Lo Ied si è portato via quelli che per lui erano come fratelli. Ora è effettivo presso il Comando militare di Roma, si occupa dell'assistenza ad altri reduci. Come spiega la moglie: «Per lui è importantissimo aiutare gli altri che hanno vissuto un'esperienza come la sua, ma è come se la rivivesse ogni volta, e gli fa male...». E in effetti a volte essere quello che si è salvato è difficile: «Io avevo detto: non vi preoccupate cuccioli che vi riporto a casa... non è stata colpa mia... ma per me è stata una sconfitta...».
Lo Stato Maggiore dell'Esercito è stato molto coraggioso a collaborare con un documentario così, a far in modo che venissero mostrati questi uomini e donne feriti ma fieri delle loro divise, un po' meno le televisioni generaliste.
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