Separati da vivi o uniti da morti

Ci sono unioni che resistono alla morte e altre che non resistono alla vita

In molti Paesi del Sud il vedovo è chiamato cattivo. Non è una definizione impietosa né allude a un animo esarcerbato, inasprito dal lutto. Ma viene dall'antico captivus, catturato dal dolore, prigioniero del ricordo. Chi perde la consorte (o il consorte) con cui ha trascorso intensamente una vita insieme ha tre modi estremi di reagire: desidera raggiungerla al più presto, e a volte accade davvero, per fatale empatia; rimuove la persona perduta per sopravviverle, come se un'estrema autodifesa immunitaria lo portasse all'egoismo; vive e si strugge nel suo ricordo, restandone prigioniero.

È il caso di Julian Barnes e del suo lucido, disperato Livelli di vita. Abbondano i libri che raccontano il proprio lutto (un delicato libro sulla perdita della moglie è di Pierluigi Battista). La morte è rimasta l'ultima casa dell'autenticità dove il cuore è messo a nudo e l'anima si svela senza vergogna. Il paragone è assurdo ma mi chiedo se sia andata peggio a loro, che hanno perso la compagna della loro vita e vivono pieni di quel ricordo e nostalgici di quell'unione, o a chi si è separato e sente fallita la sua vita affettiva, essiccata di legami, insalvabili i ricordi, avendo sposato persone sbagliate e/o avendo vissuto vite sbagliate.

Ci sono assenze che riempiono più di presenze smorte e silenzi che parlano più di voci controverse.

Ci sono unioni che resistono alla morte e altre che non resistono alla vita. È un pensiero che non consola nessuno, ma racconta solo gli strani giri della sorte.

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